Santi & Sposi
MARZO
Sommario
Sant'Agnese Cao Kuiying Vedova, martire.
Beato Umberto III di Savoia Conte.
San Vittore e compagni (tra cui gli sposi Claudiano e Bassa) Martiri di Nicomedia
Sante Perpetua e Felicita Martiri
Santa Francesca Romana Religiosa.
Santi Pietro Ch’oe Hyong e Giovanni Battista Chon Chang-un Martiri
Santi Quaranta Martiri di Sebaste.
Santi Marco Chong Ui-bae e Alessio U Se-yong Martiri
San Giuseppe Zhang Dapeng Catechista e martire
Santi Macedonio, Patrizia e Modesta di Nicomedia Martiri
San Leone Vescovo e martire a Roma
Santa Matilde di Germania Regina.
Santa Luisa de Marillac Vedova e religiosa
Beati Giovanni Amias e Roberto Dalby Sacerdoti e martiri
San Giovanni Sarkander Martire
San Giuseppe Sposo della Beata Vergine Maria
Beato Marco da Montegallo Francescano
Sant'Arcil II Re di Georgia, martire
Beato Michele Gomez Loza Laico e martire
Santa Benedetta Cambiagio Frassinello Religiosa
San Nicola di Flue Padre di famiglia, eremita
Beata Bertrada di Laon Madre di S. Carlo Magno
Santa Caterina di Svezia Religiosa
Santa Margherita Clitherow Martire in Inghilterra
San Pelagio di Laodicea Vescovo
Santi Montano e Massima Sposi, martiri
Santi Fileto e Lidia, sposi, e Macedone, Teoprepio, Cronide e Anfilochio
Beata Giovanna Maria de Maillé Vedova
San Gontranno (Guntramno) Re dei Franchi
Beata Renata Maria Feillatreau Martire
Santa Gladys (Gwladys) e San Gwynllyw (Gundleius) sposi
San Gwynllyw (Gundleius) Re del Galles
Beato Amedeo IX di Savoia Duca, Terziario francescano
Beato Dodone di Haske Premostratense
Beato Daniele de Ungrispach Martire camaldolese
WUJIAZHAI, CINA, 1821 CIRCA - XILIN, CINA, 1 MARZO 1856
Canonizzata il 1° ottobre 2000 da Papa Giovanni Paolo II.
Etimologia: Agnese = pura, casta, dal greco
Martirologio Romano: Nella città di Xilinxian nella provincia del Guangxi in Cina, sant’Agnese Cao Kuiying, martire, che, già sposata con un marito violento, dopo la morte di questi si dedicò per mandato del vescovo all’insegnamento della dottrina cristiana e, messa per questo in carcere e patiti crudelissimi tormenti, confidando sempre in Dio migrò al banchetto eterno.
Danimarca, 1081 – Fiandre (Belgio), 2 marzo 1127
Carlo il Buono, principe danese, figlio del santo re CanutoIV, ottenne la corona di conte di Fiandra da parte materna. Dopo una breve parentesi iniziale, il suo regno fu caratterizzato da pace e giustizia. Dedito alla difesa ed all’aiuto dei poveri e dei deboli, venne ucciso da uomini d’arme che egli aveva cercato di pacificare. Leone III lo beatificò ufficialmente nel 1882 ed il nuovo Martyrologium Romanum lo ricorda ancora oggi nell’anniversario del martirio.
Patronato: Fiandre, Belgio
Martirologio Romano: A Bruges nelle Fiandre, nell’odierno Belgio, beato Carlo Bono, martire, che, principe di Danimarca e poi conte delle Fiandre, fu custode della giustizia e difensore dei poveri, finché fu ucciso dai soldati che cercava invano di indurre alla pace.
Il beato principe e martire Carlo il Buono fu il figlio quartogenito del re danese San Canuto IV, anch'egli martire, e di Adele o Alice di Fiandra, figlia di Roberto il Frisone. Carlo aveva all'incirca solo cinque anni alla morte di suo padre e fu allora condotto a Bruges alla corte del nonno materno, il conte delle Fiandre. Qui fu allevato e creato cavaliere. Partì dunque per la Terra Santa con suo zio Roberto di Gerusalemme, ove prese parte alle imprese dei crociati. Sopravvissuto a qualche ferita, ricoperto di cicatrici poté fare ritorno in Europa.
Baldovino della Hache, suo cugino di primo grado, che nel 1111 succedette come conte delle Fiandre a Roberto di Gerusalemme, non avendo eredi lasciò in eredità la contea a Carlo a scapito di Guglielmo d'Ypres, suo parente di eguale grado. Gli fu data in sposa Margherita, figlia del conte di Clermont Renato, che gli portò in dote la contea di Amiens. Infine Baldovino lo associò al governo dei suoi stati.
La dolcezza e l'equità che lo contraddistinsero fecero sì che, al momento della sua ascesa al trono, nel 1119, Carlo fosse già considerato quale un padre ed un protettore.
Ma la gioia pubblica fu turbata dalla contessa Clemenza, madre del defunto conte Baldovino. Favorevole a Guglielmo d'Ypres, questa principessa organizzò una lega di principi che dichiararono guerra al giovane Carlo. Con l'aiuto di Dio questi riuscì a trionfare sui suoi nemici. In qualità di conte di Amiens e di vassallo del re di Francia, Carlo poté venire in soccorso di quest'ultimo quando l'imperatore Carlo V invase la Champagne nel 1123. Tutto ciò contribuì a far sì che il nome di Carlo il Buono divenisse paradossalmente sempre più temibile tra gli stranieri.
Messe da parte le numerose guerre che avevano rattristato l'inizio del suo regno, Carlo si prodigò nel far regnare la pace e la giustizia nei suoi stati. Proclamò la “tregua di Dio”, volta a vietare ai suoi sudditi l'uso della armi per porre fine alle frequenti risse. Puntò molto sull'esempio: semplice e modesto nei suoi atteggiamenti, era solito praticare un'austerità tipica dei religiosi. Nemico del fasto, ridusse i propri dipendenti al fine di diminuire le imposte del popolo ed aumentò lo stipendio ai proprio fattori. Pieno di sollecitudine verso i poveri, arrivava addirittura di privarsi dei propri vestiti per donarli loro. Era solito restare a piedi nudi in segno di devozione nel compiere i suoi quotidiani atti di carità.
Carlo si mostrò sempre rispettoso sia dei preti secolari che dei religiosi: sollecitava ed accoglieva i loro pareri con una sincera umiltà, li ringraziava quando gli segnalavano degli errori da correggere, li ricompensava con una specialissima protezione. Ogni sera si faceva spiegare alcuni passi biblici da tre dottori in teologia.
Stabilì che i tutti condannati a morte dovessero confessarsi e ricevere la comunione il giorno precedente all'esecuzione della pena.
Nel 1125 una terribile carestia si abbatté sulle Fiandre e sulla Piccardia. Questa fu per Carlo un’occasione di manifestare la sua sollecitudine e la sua carità. Ogni giorno provvedette a sfamare ben cento poveri a Bruges e volle che ugualmente accadesse in ciascuno dei suoi castelli. Sempre quotidianamente era solito provvedere ad abbigliare cinque poveri. Dopo queste generose distribuzioni partecipava alla messa in chiesa, cantava alcuni salmi e donava ancora dei soldi ai mendicanti. Il resto delle sue giornate lo trascorreva redigendo dei nuovi regolamenti volti a risolvere i mali temporali che ancora affliggevano il suo stato e prevenirne il ritorno. Alla morte senza eredi del Sacro Romano Imperatore, vi fu la proposta di eleggere proprio Carlo, conte di Fiandra. Cercò dunque consiglio tra alcuni suoi baroni, ma solo una piccola parte lo spinse ad accettare lo scettro imperiale, poiché la maggioranza temeva di perdere colui in cui riconosceva un vero padre delle Fiandre. Carlo seguì il consiglio di questi ultimi. Declinò ugualmente la corona di Gerusalemme che gli fu offerta quando Baldovino fu imprigionato dai turchi. Preferì dunque consacrarsi totalmente al bene delle Fiandre.
Ma non tutti vedevano di buon occhio l'operato di Carlo e non appena si verificò l'ennesima lite tra uomini d'arme, egli tentò con ogni sforzo di giungere come al solito ad una soluzione pacifica, escludendo dunque il ricorso alle armi. Ciò portò quasi tutti i congiurati ad essere d'accordo su un unico punto: si riunirono una sera nella casa di uno di essi, congiunsero le mani in segno d'alleanza e trascorsero l'intera notte ad organizzare l'esecuzione di un attentato nei confronti di Carlo.
L'indomani mattina, 2 marzo 1127, questi, dopo essersi come sempre prodigato nell'assistenza ai bisognosi, il conte si recò per la messa nella chiesa di Saint-Donatien, attigua al suo palazzo. Qui i malfattori poterono così portare a compimento il loro malvagio piano, ottenendo a Carlo la corona del martirio. Il suo corpo fu sepolto provvisoriamente nel luogo stesso dell'assassinio, ma senza alcuna solennità poiché il luogo sacro era stato violato da un omicidio sacrilego. La cerimonia funebre si tenne dunque tra le mura della città, nella chiesa di Saint-Pierre. Il re di Francia, Luigi il Grosso, chiamato in Fiandra dai baroni del paese, vendicò la morte del conte suo parente punendo gli assassini secondo la giustizia della legge. Dopo alcune settimane il suo corpo fu riesumato e trovato incorrotto. Fu allora traslato nella chiesa di Saint-Christophe e solo dopo il 25 aprile, con la riconsacrazione della chiesa, poté fare ritorno a Saint-Donatien. In seguito le sue reliquie entrarono a far parte del tesoro della cattedrale di Bruges.
Il culto verso Carlo il Buono sembrava essersi affievolito a causa dell'oblio del tempo, quando arrivò finalmente nel 1882 la conferma ufficiale da parte del pontefice Leone XIII, che gli conferì così il titolo di “beato”. In seguito a questo atto il glorioso martire, conte di Fiandra, poté essere dichiarato patrono secondario del neonato Regno del Belgio.
Ad incentivare il suo culto all'alba del terzo millennio ha contribuito il nuovo Martyrologium Romanum, che lo ricorda così nell'anniversario dell'assassinio: “A Bruges, in Fiandra, ricordo del Beato Carlo il Buono, martire, che, principe di Danimarca e in seguito conte di Fiandra, visse custodendo la giustizia e difendendo i poveri, finché venne ucciso da uomini d'arme che egli aveva cercato di pacificare.”
Autore: Fabio Arduino
+ 3 marzo 1033
Le notizie che la riguardano sono tratte da fonti sparse, tramandate da cronisti contemporanei quali Tietmaro di Mersburgo e Rodolfo il Glabro, nonché da una vita composta da un canonico di Bamberga a oltre un secolo dalla morte. Da queste fonti sappiamo che Cunegonda venne cresciuta con una profonda educazione cristiana. A vent'anni circa sposò il duca di Baviera, che nel 1002 fu incoronato re di Germania e nel 1014 imperatore. Malgrado fosse sterile Enrico non volle ripudiare la moglie, scelta ammessa dal matrimoniale germanico, tollerato da Roma. Per la grande pietà e santità che riscontrava in lei preferì viverle assieme anche senza speranza di prole. Così nel 1002 a Paderborn fu incoronata regina e nel 1014 a Roma ricevette, assieme al marito, la corona imperiale da papa Benedetto VIII. Assecondata dal marito fece erigere il Duomo di Bamberga (1007) e il monastero benedettino di Kaufungen (1021) dove, rimasta vedova, si ritirò conducendo vita monastica. Morì il 3 marzo probabilmente del 1033 anche se qualcuno data la sua scomparsa sei anni dopo. (Avvenire)
Etimologia: Cunegonda = che combatte per la stirpe, dall'antico tedesco
Martirologio Romano: A Oberkaufungen nell’Assia, in Germania, santa Cunegonda: molti benefici arrecò alla Chiesa insieme al marito sant’Enrico imperatore, e, dopo la morte di costui, ella stessa migrò al Signore nel convento in cui come monaca si era ritirata, facendo di Cristo la sua eredità. Il suo corpo fu deposto con tutti gli onori accanto alle spoglie di sant’Enrico a Bamberga.
Le Chiese d’Oriente e d’Occidente in due millenni di cristianesimo hanno attribuito l’aureola della santità quale corona eterna a non poche imperatrici, e talvolta anche ai loro mariti, che sedettero sui troni di Roma, di Costantinopoli e del Sacro Romano Impero. Sfogliando le pagine dell’autorevole Bibliotheca Sanctorum e della Bibliotheca Sanctorum Orientalium possiamo trovare i loro nomi: Adelaide, Alessandra e Serena (presunte mogli di Diocleziano), Ariadne, Basilissa (o Augusta), Cunegonda, Elena, Eudossia, Irene d’Ungheria (moglie di Alessio I Comneno), Irene la Giovane (moglie di Leone IV Chazaro), Marciana, Pulcheria, Placilla, Riccarda, Teodora (moglie di Giustiniano), Teodora (moglie di Teofilo l’Iconoclasta), Teofano. Anche nel XX secolo non sono mancate sante imperatrici: Sant’Alessandra Fedorovna, moglie dell’ultimo zar russo canonizzata dal Patriarcato di Mosca, la Serva di Dio Elena di Savoia, imperatrice d’Etiopia, ed in fama di santità è anche Zita di Borbone, moglie del Beato Carlo I d’Asburgo ed ultima imperatrice d’Austria.
Santa Cunegonda, oggi festeggiata, è venerata anche insieme al marito, l’imperatore Enrico II, la cui festa è però celebrata separatamente al 13 luglio. Le fonti relative a questa santa sono purtroppo costituite da notizie sparse, tramandate da alcuni cronisti contemporanei quali Tietmaro di Mersburgo e Rodolfo il Glabro, nonché da una vita composta da un canonico di Bamberga oltre un secolo dopo la morte. I genitori diedero alla figlia, sin dai primi anni, una profonda educazione cristiana. All’età di circa vent’anni, Cunegonda sposò il duca di Baviera, Enrico appunto, che nel 1002 venne incoronato re di Germania e nel 1014 sacro romano imperatore.
Su questo matrimonio, specialmente al principio del XX secolo, sono sorte parecchie polemiche: in alcuni testi antichi infatti, tra i quali la bolla di papa Innocenzo III, si narra che i due coniugi fecero voto di perpetua verginità e si parlò così di “matrimonio di San Giuseppe” e per tale motivo a Cunegonda è stato talvolta attribuito il titolo di “vergine”, ma secondo altri autori moderni una simile qualifica non corrisponderebbe alle narrazioni di contemporanei come Rodolfo il Glabro. Secondo quest’ultimo, I fatti, Enrico si accorse della sterilità della moglie, ma nonostante il matrimoniale germanico ammettesse il ripudio, non volle usare questo diritto per la grande pietà e santità che riscontrava nella consorte e preferì continuare a vivere insieme a lei pur senza speranza di prole. Fu proprio ciò, unitamente alla fama di santità che circondò i due coniugi, a far nascere in seguito la leggenda del cosiddetto “matrimonio di San Giuseppe”.
Nella Vita e nella bolla pontificia di canonizzazione si legge che Cunegonda fu oggetto di una grande calunnia di infedeltà coniugale ed Enrico, per provarne l’innocenza, decise di sottoporla alla prova del fuoco. La moglie accettò e passò miracolosamente indenne a piedi nudi sopra vomeri infuocati. L’imperatore chiese perdono all’augusta consorte per aver dato troppo credito agli accusatori e da quel momento visse in piena stima e fiducia nei suoi confronti. Non ci è dato sapere quale validità storica abbia concretamente questo episodio, resta comunque il suo alto valore simbolico.
Il 10 agosto 1002 a Paderborn Cunegonda fu incoronata regina e nel 1014 si recò a Roma con il marito per ricevere la corona imperiale dalle mani di papa Benedetto VIII, il 14 febbraio di quell’anno. La vita dell’imperatrice costituì un mirabile esempio di carità, umiltà e mortificazione, virtù che la caratterizzarono in molteplici manifestazioni. Assecondata dal pio marito, nel 1007 fece erigere il duomo di Bamberga e nel 1021 il monastero di Kaufungen, fondato in seguito ad un voto fatto durante una gravissima malattia da cui uscì pienamente ristabilita. Proprio in questo monastero benedettino volle ritirarsi nel 1025, addolorata per la perdita del marito. Nel giorno anniversario della morte di Enrico II, Cunegonda convocò parecchi vescovi per la dedicazione della chiesa di Kaufungen, cui donò una reliquia della Santa Croce. Dopo la lettura del Vangelo, si spogliò delle insegne e degli abiti imperiali, si fece tagliare i capelli e vestì il rozzo saio benedettino. Continuò, come già aveva fatto in precedenza, a spendere il suo patrimonio nell’edificazione di nuovi monasteri, decorando chiese ed aiutando i poveri. Intrapresa dunque la vita monastica, visse in assoluta umiltà come se mai fosse stata addirittura imperatrice. Prese a trascorrere gran parte delle sue giornate in preghiera e nella lettura delle Sacre Scritture, non disdegnando però i lavori manuali ed i servizi più umili. Un compito assegnatole che gradì particolarmente fu la visita alle consorelle ammalate per portare loro conforto ed assistenza. Si distinse inoltre per la pratica severa della penitenza: assumeva infatti esclusivamente il cibo indispensabile per sopravvivere, rifiutando ciò che poteva solleticare in qualche maniera il palato.
Sino al termine dei suoi giorni Cunegonda condusse questo stile di vita. Morì infine il 3 marzo di un anno imprecisato, generalmente viene preferito il 1033 anziché il 1039. Le sue spoglie mortali trovarono degna sepoltura presso quelle del marito nella cattedrale di Bamberga. Nei primi anni non fu oggetto di grande culto, ma dal XII secolo la venerazione nei suoi confronti crebbe grandemente fino a superare quella tributata già in precedenza ad Enrico. La causa di canonizzazione fu introdotta sotto il pontificato di Celestino III, ma solo Innocenzo III con bolla del 29 marzo 1200 ne approvò ufficialmente il culto. Nella diocesi di Bamberga nel XV secolo ben quattro solenni celebrazioni erano dedicate alla memoria della santa imperatrice: il 3 marzo (anniversario della morte), il 29 marzo (anniversario della canonizzazione), il 9 settembre (traslazione delle reliquie) ed il 1° agosto (commemorazione del primo miracolo).
Autore: Fabio Arduino
Sposato ben 4 volte!
Avigliana, Torino, 1136 - Chambéry, Savoia, 4 marzo 1188
Diede diritti e doni ai monasteri ed ebbe un ruolo decisivo nell'organizzazione dell'abbazia di Altacomba. Si dice che avrebbe preferito essere monaco invece che sovrano. Ebbe quattro mogli: Faide di Tolosa, morta nel 1154, Gertrude delle Fiandre (matrimonio annullato), Clemenza di Zharinghen, morta nel 1162 e Beatrice di Macon. Alla morte della terza moglie si ritirò ad Hautecombe, ma poi cambiò idea e, dalla quarta moglie ebbe finalmente l'erede maschio. Si schierò col partito guelfo del papa Alessandro III contro i Ghibellini dell'imperatore Federico Barbarossa. La conseguenza fu l'invasione dei suoi stati per ben due volte: nel 1174 Susa fu messa a ferro e fuoco e nel 1187 Enrico VI lo bandì dall'impero e gli tolse la maggior parte dei domini, gli rimasero solo le valli di Susa e d'Aosta. Morì a Chambéry nel 1189. Fu il primo principe sepolto ad Hautecombe.
Emblema: Corona, Scettro
Martirologio Romano: A Chambery in Savoia, beato Umberto, terzo conte di Savoia, che costretto a lasciare il chiostro per occuparsi degli affari pubblici, con maggiore dedizione praticò la vita monastica, a cui in seguito ritornò.
Umberto III, conte di Savoia, primo beato della celebre dinastia omonima, è un personaggio di assoluto rilievo nel grande quadro della società medievale come della storia sabauda, di cui possiede le fondamentali caratteristiche: mistico, portato per vocazione e tradizione alla vita contemplativa, reso dalle vicende del suo tempo guerriero e politico, sposo esclusivamente per ragioni dinastiche. Umberto nacque verso il 1136 nel castello di Avigliana, nei pressi di Torino, figlio del conte Amedeo III e di Matilde d’Albon. Ereditò dal padre come dal nonno Umberto II il sogno unitario di ricostituire il disciolto regno di Borgogna, in netto contrasto con la politica accentratrice dei sovrani francesi e con l’affermazione universalistica di Federico I Barbarossa, e si trovò indotto a svolgere un’accorta politica di assoggettamento delle signorie feudali confinanti o insediate fra i suoi beni.
Non dissimili furono i suoi inizi da quelli paterni: Umberto II, morendo infatti giovane, aveva lasciato erede il primogenito Amedeo III ancora minorenne. Questi affidò l’educazione di suo figlio a Sant’Amedeo di Losanna, già abate di Hautecombe, e sotto la sua guida il piccolo Umberto fece grandi progressi negli studi e nella formazione spirituale, disprezzando l’apparente splendore delle cose mondane per darsi alla preghiera, alla meditazione ed alla penitenza. Per meglio conseguire i suoi alti scopi, si ritirava spesso proprio nell’abbazia di Hautecombe, sulle rive del lago di Bourget in Savoia, fondata dal padre: egli lasciava sempre con rincrescimento questo luogo ogni volta che la famiglia e la nobiltà savoiarda lo richiamavano per occuparsi di questioni politiche. Amedeo III fu pellegrino in Terra Santa nel 1122 circa per gratitudine verso il papa Callisto II, e dal 1146 partecipò alla Seconda Crociata, morendo sull’isola di Cipro presso Nicosia il 1° aprile 1148, ove fu sepolto, lasciando quale erede il piccolo Umberto III appena dodicenne.
Seppur ancora in tenera età, nel 1151 Umberto convolò a nozze con Fedica, figlia del conte Alfonso-Giordano di Tolosa, che morirà presto senza figli. Il genealogista Carrone ha dubitato sulla nascita del conte nel 1136, già affermata dal Guichenon che aveva pubblicato un documento con la data del matrimonio all’anno 1151, quindi in un'età giovanissima di quattordici o quindici anni, ed antepose quindi la nascita verso il 1132. Bisogna però tener conto che la vita umana allora era assai più breve ed i costumi medievali non disdegnavano impegni matrimoniali fra nascituri o fanciulli. Più tardi Umberto sposò una cugina, Gertrude figlia del conte Teodorico di Fiandra e di Clemenza di Borgogna, sua parente per essere sorella di papa Callisto II e di Gisella madre di Amedeo III. Purtroppo questo secondo matrimonio venne annullato per sterilità. Nel 1164 sposò Clementina di Zharinghen, che gli diede però solo due figlie: Alice e Sofia. Rimasto nuovamente vedovo nel 1173, decise di ritirarsi ad Hautecombe, finché la nobiltà nel 1177 non riuscì a convincerlo a sposarsi per la quarta volta, sperando in un erede maschio, con Beatrice figlia del conte Gerardo di Macon. Nacquero così finalmente Tommaso, al quale spetterà di continuare la dinastia, ed un’altra figlia che però morì all’età di sette anni. Non deve stupire che la Chiesa abbia riconosciuto la santità di un uomo sposatosi ben quattro volte, anche la Chiesa Ortodossa Romena ha dichiarato santo il voivoda moldavo Stefan cel Mare, che anch’egli ebbe quattro mogli.
Il lungo regno di Umberto III, durato circa quarant’anni, è caratterizzato da particolari contrasti nei riguardi dell’imperatore, dei vari signori e vescovi-conti. Il principale motivo di contrasto consistette nella protezione del Barbarossa verso il vescovo di Torino, che sognava di dominare indisturbato il capoluogo subalpino, e ciò portò ad una progressiva riduzione dei possessi e dell’autorità di Umberto III sul versante italiano, ove non gli rimasero che la Val di Susa e la Valle d’Aosta. Nel 1187 venne infatti bandito dall’impero da Enrico VI, in quanto appoggiava gli oppositori dell’imperatore. Non gli rimase che ritirarsi come detto nei suoi domini alpini, dedicandosi in particolare alla pratica delle virtù personali ed alla carità fraterna. Promosse inoltre la fondazione della Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso, presso Buttigliera Alta, poco lontano dall’abitato di Avigliana, affidandola agli Antoniani provenienti da Vienne, in Francia.
La spiritualità di Umberto sbocciò indubbiamente in un ambiente di antiche tradizioni cristiana, favorita in particolar modo dall’esempio di suo padre, pellegrino e crociato in Terra Santa, e del santo vescovo di Losanna, suo precettore. La vita di questo sovrano trascorse quasi tutta sotto il segno delle contraddizioni: amante della pace, dovette scontrarsi con frequenti ostilità e guerre; penitente, asceta contemplativo, la cura del governo gli impose una vita d’azione, ritrovandosi quasi costretto al matrimonio per lasciare un erede. Diede tuttavia indubbi segni di grande equilibrio morale, di severità con sé stesso e di indulgenza e carità verso il prossimo. Assai munifico si rivelò verso chiese, monastero e soprattutto verso i poveri.
La morte di Umberto III, il 4 marzo 1189 a Chambéry, all’età di cinquantadue anni, fu pianta con sincerità da tutto il popolo. Fu il primo principe sabaudo ad essere sepolto nell’abbazia di Hautecombe, che da allora divenne una necropoli per la dinastia, tanto che ancora oggi vi riposano Umberto II e Maria José, ultimi sovrani italiani. Il conte defunto ricevette subito una grande venerazione, supportata anche da non pochi miracoli, finché nel 1838 il re Carlo Alberto di Sardegna non riuscì ad ottenere da papa Gregorio XVI l’approvazione ufficiale del titolo di “beato” per il suo avo, nonché per il nipote di questi, Bonifacio, monaco certosino e poi arcivescovo di Canterbury. I due beati di Casa Savoia riposano oggi in due pregevoli sarcofagi dietro l’altar maggiore della chiesa abbaziale ad Hautecombe. In Italia il Beato Umberto III è ricordato ancora oggi in particolare presso Racconigi, ove nel Santuario Reale della Madonna delle Grazie è custodito un quadro del beato donato dalla regina Elena e fatto restaurare dal re Umberto II. Inoltre è venerato presso Aosta, ove è raffigurato sulla facciata della cattedrale, ed nel castello di Sarre, sempre in Valle d’Aosta.
ORAZIONE
O Dio, che al beato Umberto
hai insegnato a preferire il Regno dei cieli ad un regno terreno
e ad abbracciare la mortificazione della croce,
aiuta anche noi, per le sue preghiere e secondo il suo esempio,
a distaccarci dai beni della terra e a cercare quelli eterni.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Autore: Fabio Arduino
Mi piace l'espressione della ospitalità che è una delle caratteristiche tipiche della famiglia...
Accanto ai grandi martiri dei primi anni del secondo secolo come Ignazio di Antiochia e Simeone di Gerusalemme, ultimo dei parenti immediati di Gesù, troviamo anche un ortolano, di nome Foca, abitante a Sinope, nel Ponto Eusino. Era apprezzato e benvoluto da tutti per la sua generosità e la sua ospitalità e di queste sue virtù diede una commovente dimostrazione agli stessi carnefici, incaricati di eseguire la sentenza capitale pronunciata contro di lui. Evidentemente i carnefici non lo conoscevano di persona, perché, entrati in casa sua per avere delle indicazioni, furono generosamente invitati a pranzo dall'ortolano. Mentre i due si rifocillavano, Foca andò nell'orto a scavarsi la fossa; quindi tornò in casa e dichiarò la propria identità ai carnefici, pregandoli di non porre indugi all'esecuzione della sentenza. Fu accontentato e pochi istanti dopo il suo corpo cadeva nella fossa appena scavata. (Avvenire)
Patronato: Agricoltori, Giardinieri, Naviganti
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Sinópe nel Ponto, nell’odiena Turchia, san Foca, martire, che fu giardiniere e patì molti tormenti per il nome del Redentore.
L’ospitalità, si sa, è dovere di ogni buon cristiano; l’amore vicendevole ed il perdono fraterno anche. Ma arrivare al punto da preparare cena, prestare il proprio letto e fornire lenzuola di bucato ai propri assassini è eroismo puro. Che ci viene insegnato oggi da un santo dal nome strano ma dalla storicità certa, che gode di una vastissima devozione tanto in Oriente come in Occidente, al punto che c’è chi lo festeggia a marzo, chi a luglio e chi il 22 settembre. Addirittura hanno provato ad “inventare” altri santi con lo stesso nome, ma l’unico autentico è proprio quello dal mestiere più umile e dalla testimonianza più coraggiosa, San Foca il giardiniere. La sua vicenda umana si colloca nei primi secoli dell’era cristiana, sicuramente non oltre il quarto secolo; le prime testimonianze su di lui arrivano da un panegirico del V secolo, così stringato, documentato e presentato con tono di rapida sequenza, come di cronaca giornalistica, da non lasciare dubbio alcuno sull’autenticità del personaggio celebrato. Dicevamo: Foca è giardiniere, forse anche benestante, dato che è famoso presso i suoi contemporanei per la sua generosità verso i poveri e per l’ospitalità che offre a tutti nella sua casa. Vive a Sinope, un grande porto sul Mar Nero ed è cristiano, il che, all’epoca in cui vive, non è certo una scelta di comodo o una semplice tradizione di famiglia, visto che continuamente i cristiani sono perseguitati e uccisi dall’imperatore di turno, che in questa maniera si illude di spegnere la nuova religione che sta prendendo piede. Foca, oltre che generoso ed ospitale, è forse anche un personaggio in vista; oppure la sua testimonianza è così limpida e convincente da rappresentare un pericolo per l’autorità politica. Così viene condannato a morte senza processo e mandano due sicari sulle sue tracce, con il preciso incarico di eseguire immediatamente la condanna capitale. Per ironia della sorte i due sicari, giunti nei pressi di Sinope, bussano proprio alla porta di Foca per avere informazioni sul “pericoloso cristiano” di cui sono alla ricerca e si vedono spalancare la porta di quella casa, tradizionalmente ospitale, offrire un pasto sostanzioso e un buon letto su cui riposare. Non hanno nessun problema a rivelare a quell’uomo così cortese il motivo del loro viaggio e non si fanno scrupoli nel chiedergli consiglio sul modo migliore per giungere in fretta a mettere le mani su quel tal Foca e così portare a termine la loro missione. Invitati a trascorrere la notte in quella casa con la promessa di ricevere dal loro ospite utili indicazioni il mattino successivo, quale non è, al risveglio, la loro sorpresa nel trovarlo di buon mattino già in giardino, dove ha appena finito di scavare una fossa. Ma alla sorpresa si aggiunge un più che comprensibile problema di coscienza, nello scoprire che è proprio lui quel Foca di cui sono alla ricerca. Che li invita a compiere il loro dovere, dato che non ha voluto, anche se avrebbe potuto mentre dormivano, sfuggire ai suoi carnefici, ai quali anzi ha risparmiato anche la fatica di scavargli la fossa. E in quella lo seppelliscono dopo averlo trapassato con la spada, in mezzo ai fiori ed agli ortaggi del suo giardino, umile seme di autentica testimonianza cristiana. Giardinieri, ortolani e i marinai orientali lo venerano loro patrono. Viene invocato contro il morso dei serpenti: secondo la tradizione, chiunque, dopo il morso, aveva la possibilità di toccare la porta della basilica del martire veniva immediatamente risanato.
Autore: Gianpiero Pettiti
Etimologia: Vittore = vincitore, dal latino
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Nicomedia in Bitinia, nell’odierna Turchia, san Vittorino, martire.
S. Vittore è citato al 6 marzo dal Martirologio Romano, insieme ad un gruppo di altri martiri, essi sono Vittorino, Claudiano e Bassa sua moglie.
Con il nome di Vittore ci sono ben 51 santi, in buona parte martiri da soli o in gruppetti con altri compagni.
Quando parliamo di martiri dei primi secoli vi sono quasi sempre poche notizie, incerte, confuse, a volte contraddittorie, come nel caso di questo gruppo a cui appartiene il s. Vittore di cui parliamo.
Il gruppo così composto proviene da Martirologi medioevali, mentre il Martirologio Geronimiano dice che
Vittore e Vittorino sono martiri a Nicomedia, mentre Claudiano e Bassa sono martiri di Apamea in Bitinia.
Il Martirologio Siriaco al 6 marzo cita solo s. Vittorino.
Mentre il Martirologio Geronimiano per la seconda volta cita sempre al 6 marzo un altro gruppo Vittore, Vittorino, Claudiano, Diodoro, Papia, Niceforo e Serapione martiri in Egitto.
Inoltre per la terza volta cita tre martiri di Attala in Panfilia, Claudiano, Diodoro, Papia, sempre al 6 marzo.
Potremo darci una spiegazione, che al quel tempo vi era una grande omonimia e nel contempo un gran numero di martiri, cosicché nello stesso giorno morivano cristiani dallo stesso nome, ma in questo caso in località e regioni diverse.
Altro non si può dire, che furono afflitti da svariati tormenti e reclusi in carcere nell’arco di tre anni.
Autore: Antonio Borrelli
Oggi grandi santi sposati! La famosa Santa Perpetua
+ Cartagine, 7 marzo 203
Chiusa in carcere aspettando la morte, una giovane tiene una sorta di diario dei suoi ultimi giorni, descrivendo la prigione affollata, il tormento della calura; annota nomi di visitatori, racconta sogni e visioni degli ultimi giorni. Siamo a Cartagine, Africa del Nord, anno 203: chi scrive è la colta gentildonna Tibia Perpetua, 22 anni, sposata e madre di un bambino. Nella folla carcerata sono accanto a lei anche la più giovane Felicita, figlia di suoi servi, e in gravidanza avanzata; e tre uomini di nome Saturnino, Revocato e Secondulo. Tutti condannati a morte perché vogliono farsi cristiani e stanno terminando il periodo di formazione; la loro «professione di fede» sarà il martirio nel nome di Cristo. Le annotazioni di Perpetua verranno poi raccolte nella «Passione di Perpetua e Felicita», opera forse di Tertulliano, testimone a Cartagine. (Avvenire)
Etimologia: Perpetua = fede immutabile, dal latino - Felicita = contenta, dal latino
Martirologio Romano: Memoria delle sante martiri Perpetua e Felicita, arrestate a Cartagine sotto l’imperatore Settimio Severo insieme ad altre giovani catecumene. Perpetua, matrona di circa ventidue anni, era madre di un bambino ancora lattante, mentre Felicita, sua schiava, risparmiata dalle leggi in quanto incinta affinché potesse partorire, si mostrava serena davanti alle fiere, nonostante i travagli dell’imminente parto. Entrambe avanzarono dal carcere nell’anfiteatro liete in volto, come se andassero in cielo.
Chiusa in carcere aspettando la morte, tiene una sorta di diario dei suoi ultimi giorni, descrivendo la prigione affollata, il tormento della calura; annota nomi di visitatori, racconta sogni e visioni degli ultimi giorni. Siamo a Cartagine, Africa del Nord, anno 203: chi scrive è la colta gentildonna Tibia Perpetua, 22 anni, sposata e madre di un bambino. Nella folla carcerata sono accanto a lei anche la più giovane Felicita, figlia di suoi servi, e in gravidanza avanzata; e tre uomini di nome Saturnino, Revocato e Secondulo. Tutti condannati a morte perché vogliono farsi cristiani e stanno terminando il periodo di formazione; la loro “professione di fede” sarà la morte nel nome di Cristo. Le annotazioni di Perpetua verranno poi raccolte nella Passione di Perpetua e Felicita, opera forse del grande Tertulliano, testimone a Cartagine. Il racconto segnala le pressioni dei parenti (ancora pagani) su Perpetua e su Felicita, che proprio in quei giorni dà alla luce un bambino. Per aver salva la vita basta “astenersi”. Ma loro non si piegano.
Questo accade regnando l’imperatore Settimio Severo (193211), anche lui di origine africana, che è in guerra continua contro i molti nemici di Roma, e perciò vede ogni cosa in funzione dell’Impero da difendere; e tutto vorrebbe obbediente e inquadrato come l’esercito. Con i cristiani si è mostrato tollerante nei primi anni. Ma ora, in questa visione globale della disciplina, che include pure la fede religiosa, scatena una dura lotta contro il proselitismo cristiano e anche ebraico. Cioè contro chi ora vuole abbandonare i culti tradizionali. Per questo c’è la pena di morte: e morte-spettacolo, spesso, come appunto a Cartagine. Perpetua, Felicita e tutti gli altri entrano nella Chiesa col martirio che incomincia nell’arena, dove le belve attaccano e straziano i morituri. E poi c’è la decapitazione.
Perpetua vive l’ultima ora con straordinarie prove di amore e di tranquilla dignità. Vede Felicita crollare sotto i colpi, e dolcemente la solleva, la sostiene; zanne e corna lacerano la sua veste di matrona, e lei cerca di rimetterla a posto con tranquillo rispetto di sé. Gesti che colpiscono e sconvolgono anche la folla nemica, creando momenti di commozione pietosa. Ma poi il furore di massa prevale, fino al colpo di grazia.
Nei Promessi sposi, il Manzoni ha chiamato Perpetua la donna di servizio in casa di don Abbondio; e il nome di quel personaggio letterario così fortemente inciso è passato poi a indicare una categoria: quella, appunto, delle “perpetue”, addette alla cura delle canoniche. Cesare Angelini, il grande studioso del Manzoni, ritiene che egli abbia tratto quel nome dal Canone latino della Messa, "dov’è allineato con quelli dell’altre donne del romanzo: Perpetua, Agnese, Lucia, Cecilia...".
Autore: Domenico Agasso
Fonte: Famiglia CRISTIANA
un santo particolare la cui santità ebbe avvio dal tradimento della moglie!
m. sec. IV
Fu discepolo di Sant'Antonio abate, il quale mise alla prova in varie forme la sua obbedienza e pazienza, rimanendo commosso per la sua grande virtù.
Martirologio Romano: Nella Tebaide in Egitto, san Paolo, detto il Semplice, discepolo di sant’Antonio.
Sposato, quando si accorse che la moglie lo tradiva, scorgendo in questo un segno di una divina chiamata alla vita monastica, si ritirò nel deserto; fu un discepolo di s. Antonio Abate. Questi lo provò in molti modi: lo tenne a digiuno e fuori della cella per vari giorni sotto il sole del deserto; gli fece rompere un vaso di miele e glielo fece raccogliere con un cucchiaio stando attento a non raccogliere con esso anche la sabbia; gli fece svolgere lavori inutili come fare e disfare corde, cucire e scucire vestiti e s. Paolo non mormorò, non si scoraggiò e non si indignò. S. Antonio alla fine si commosse per questo suo discepolo scorgendo che era estremamente semplice e che in lui la grazia agiva in modo meraviglioso. Questa straordinaria umiltà e obbedienza di s. Paolo il Semplice lo rese uno straordinario esorcista, infatti s. Antonio abate gli diede una cella vicina alla sua e gli inviava gli indemoniati che lui stesso (Antonio il Grande!!) non riusciva a liberare e si racconta che per opera di s. Paolo il Semplice essi venivano immediatamente liberati dai demoni.
Autore: Don Tullio Rotondo
Roma, 1384 – 9 marzo 1440
Nacque a Roma nel 1384. Cresciuta negli agi di una nobile e ricca famiglia, coltivò nel suo animo l'ideale della vita monastica, ma non poté sottrarsi alla scelta che per lei avevano fatto i suoi genitori. La giovanissima sposa, appena tredicenne, prese dimora con lo sposo Lorenzo de' Ponziani altrettanto ricco e nobile, nella sua casa nobiliare a Trastevere. Con semplicità accettò i grandi doni della vita, l'amore dello sposo, i suoi titoli nobiliari, le sue ricchezze, i tre figli nati dalla loro unione, due dei quali le morirono. Da sempre generosa con tutti, specie i bisognosi, per poter allargare il raggio della sua azione caritativa, nel 1425 fondò la congregazione delle Oblate Olivetane di Santa Maria Nuova, dette anche Oblate di Tor de' Specchi. Tre anni dopo la morte del marito, emise ella stessa i voti nella congregazione da lei fondata, assumendo il secondo nome di Romana. Morì il 9 marzo 1440. (Avvenire)
Patronato: Motoristi
Etimologia: Francesca = libera, dall'antico tedesco
Martirologio Romano: Santa Francesca, religiosa, che, sposata in giovane età e vissuta per quarant’anni nel matrimonio, fu moglie e madre di specchiata virtù, ammirevole per pietà, umiltà e pazienza. In tempi di difficoltà, distribuì i suoi beni ai poveri, servì i malati e, alla morte del marito, si ritirò tra le oblate che ella stessa aveva riunito a Roma sotto la regola di san Benedetto.
Il Cinquecento fu un secolo in cui nacquero e operarono figure di grande santità, che rivoluzionarono il cammino della Chiesa nei secoli successivi; ma nel Quattrocento ci fu un preludio di tale fioritura, con il sorgere specie in Italia, di sante figure di uomini e donne, che vivendo in un’epoca di grandi trasformazioni, artistiche, letterarie, filosofiche, che prese il nome di ‘Rinascimento’ e che si manifestò essenzialmente come “scoperta del mondo e dell’uomo”, seppero mettere in pratica questo sorgente umanesimo, prestando attenzione all’umanità sofferente nel corpo e assetata di istruzione e guida spirituale nell’anima.
Si ricorda alcuni di questi campioni della santità cattolica del XV sec.: San Giovanni da Capestrano († 1456) francescano; san Giacomo della Marca, († 1476) frate Minore; sant’Angela Merici (1474-1540), fondatrice delle Orsoline; san Bernardino da Siena († 1444), frate Minore; santa Rita da Cascia († 1457), agostiniana; san Vincenzo Ferrer († 1419), domenicano; santa Caterina da Bologna († 1453), clarissa; ecc.
A loro si aggiunge la luminosa figura di santa Francesca Romana (1384-1440), contemporanea di s. Bernardino, che fu sposa, madre, vedova, fondatrice e religiosa, secondo la volontà di Dio.
Origini, sposa per obbedienza
La nobile Francesca Bussa de’ Buxis de’ Leoni, nacque a Roma nel 1384, in una famiglia abitante nei pressi di Piazza Navona e fu battezzata nella chiesa romanica di Sant’Agnese in Agone.
Ebbe un’educazione elevata per una fanciulla del suo tempo, grandicella accompagnava la madre Jacovella de’ Broffedeschi, nelle visite alle varie chiese del suo rione, ma spesso fino alla lontana chiesa di santa Maria Nova sull’antica Via Sacra, gestita dai Benedettini di Monte Oliveto, dai quali la madre era solito confessarsi e in questa chiesa, anche Francesca trovò il suo primo direttore spirituale, padre Antonello di Monte Savello, che ben presto si accorse della vocazione della fanciulla alla vita monastica, nonostante vivesse negli agi di una ricca e nobile famiglia.
Ma fu proprio questo benedettino a convincerla ad accettare la volontà del padre, Paolo Bussa de’ Buxis de’ Leoni, che secondo i costumi dell’epoca, aveva combinato per la dodicenne Francesca, un matrimonio con il nobile Lorenzo de’ Ponziani; il padre, in quel periodo conservatore del Comune di Roma, intendeva così allearsi ad un’altra famiglia nobile.
I Ponziani si erano arricchiti con il mestiere di macellai, comprando case e feudi nobilitandosi, essi risiedevano in un palazzo di Trastevere al n. 61 dell’attuale via dei Vascellari, che nel Medioevo si chiamava contrada di Sant’Andrea degli Scafi; dell’antico palazzo più volte trasformato nei secoli, rimangono le ampie cantine e al pianterreno l’ambiente quattrocentesco con il soffitto a cassettoni.
Una volta sposata, Francesca andò ad abitare nel palazzo dei Ponziani, ma l’inserimento nella nuova famiglia non fu facile, e questa difficoltà si aggiunse alla sofferenza provata per aver dovuto rinunciare alla sua vocazione religiosa; ne scaturì uno stato di anoressia che la sprofondò nella prostrazione.
Si cercò di sollevarla da questa preoccupante situazione ma invano; finché all’alba del 16 luglio 1398 le apparve in sogno sant’Alessio che le diceva: “Tu devi vivere… Il Signore vuole che tu viva per glorificare il suo nome”.
Al risveglio Francesca, accompagnata dalla cognata Vannozza, si recò alla chiesa dedicata al santo pellegrino sull’Aventino, per ringraziarlo e da allora la sua vita cambiò, accettando la sua condizione di sposa e a 16 anni ebbe il primo dei tre figli, che amò teneramente, ma purtroppo solo uno arrivò all’età adulta.
Santità vissuta in famiglia e nelle opere di carità
Con la cognata Vannozza, prese a dedicare il suo tempo libero dagli impegni familiari, a soccorrere poveri ed ammalati; erano anni drammatici per Roma, gli ecclesiastici discutevano sulla superiorità o meno del Concilio Ecumenico sul Papa; lo Scisma d’Occidente devastava l’unità della Chiesa e lo Stato Pontificio era politicamente allo sbando ed economicamente in rovina.
Roma per tre volte fu occupata e saccheggiata dal re di Napoli, Ladislao di Durazzo e a causa delle guerriglie urbane, la città era ridotta ad un borgo di miserabili.
Papi ed antipapi di quel periodo di scisma, si combattevano fra loro e spesso mancava un’autorità centrale ed autorevole, per riportare ordine e prosperità.
Francesca perciò volle dedicarsi a sollevare li misere condizioni dei suoi concittadini più bisognosi; nel 1401 essendo morta la moglie, il suocero Andreozzo Ponziani le affidò le chiavi delle dispense, dei granai e delle cantine; Francesca ne approfittò per aumentare gli aiuti ai poveri e in pochi mesi i locali furono svuotati.
Il suocero allibito decise di riprendersi le chiavi, ma ecco che essendo rimasta nei granai soltanto la pula, Francesca, Vannozza e una fedele serva, per cercare di soddisfare fino all’ultimo le richieste degli affamati, fecero la cernita e distribuirono anche il poco grano ricavato; ma pochi giorni dopo sia i granai che le botti del vino erano prodigiosamente pieni.
Andreozzo che comunque era un uomo caritatevole, che già nel 1391 aveva fondato l’Ospedale del Santissimo Salvatore, utilizzando la navata destra di una chiesa in disuso, oggi chiamata Santa Maria in Cappella, restituì le chiavi alla caritatevole nuora.
A questo punto Francesca decise di dedicarsi sistematicamente all’opera di assistenza; con il consenso del marito Lorenzo de’ Ponziani, vendette tutti i vestiti e gioielli devolvendo il ricavato ai poveri e indossò un abito di stoffa ruvida, ampio e comodo per poter camminare agevolmente per i miseri vicoli di Roma.
Era ormai conosciuta ed ammirata da tutta Trastevere, che aveva saputo del prodigio dei granai di nuovo pieni, e un gruppo di donne ne seguirono l’esempio; con esse Francesca andava a coltivare un campo nei pressi di San Paolo, da cui ricavava frutta e verdura trasportate con un asinello e che poi elargiva personalmente alla lunga fila di poveri, che ormai ogni giorno cercava di sfamare.
Alla morte del suocero Andreozzo de’ Ponziani, Francesca si prese cura dell’Ospedale del Ss. Salvatore, ma senza tralasciare le visite private e domiciliari che faceva ai poveri.
Incurante delle critiche e ironie dei nobili romani a cui apparteneva, si fece questuante per i poveri, specie quelli vergognosi e per loro chiedeva l’elemosina all’entrata delle chiese; mentre si prodigava instancabilmente in queste opere di amore concreto, tanto che il popolino la chiamava paradossalmente “la poverella di Trastevere”, Francesca riceveva dal Signore il dono di celesti illuminazioni, che lei riferiva al suo confessore Giovanni Mariotto, parroco di Santa Maria in Trastevere che le trascriveva.
Queste confidenze, pubblicate poi nel 1870, riguardavano le frequenti lotte della santa col demonio; del suo viaggio mistico nell’inferno e nel purgatorio; delle tante estasi che le capitavano; e poi dei prodigi e guarigioni che le venivano attribuite.
Le tragedie familiari
Ma questi doni straordinari che il Signore le aveva donato, furono pagati a caro prezzo, la sua vita spesa tutta per la famiglia ed i poveri di Roma, fu funestata da molte disgrazie; già quando aveva 25 anni nel 1409, suo marito Lorenzo, comandante delle truppe pontificie, durante una battaglia contro l’invasore Ladislao di Durazzo re di Napoli, contrario all’elezione di papa Alessandro V (1409-1410), venne gravemente ferito rimanendo semiparalizzato per il resto della sua vita, accudito amorevolmente dalla moglie e dal figlio.
Nel 1410 la sua casa venne saccheggiata e i loro beni espropriati, mentre il marito sebbene invalido fu costretto a fuggire, per sottrarsi alla vendetta di re Ladislao, che però prese in ostaggio il figlio Battista.
Poi a Roma ci fu l’epidemia di peste, morbo ricorrente in quei tempi, che funestava alternativamente tutta l’Europa, il suo slancio di amore verso gli ammalati, le fece commettere l’imprudenza di aprire il suo palazzo agli appestati; la pestilenza le portò così via due figli, Agnese ed Evangelista e lei stessa si contagiò, riuscendo però a salvarsi; passata l’epidemia poté ricongiungersi con il marito e l’unico figlio rimasto Battista.
È di quel periodo l’apparizione in sogno del piccolo figlio Evangelista, insieme con un Angelo misterioso, che s. Francesca da allora in poi avrebbe visto accanto a sé per tutta la vita.
Fondatrice di confraternita
Francesca Bussa, continuando ad aiutare i suoi poveri ed ammalati, senza fra l’altro trascurare la preghiera, tanto da dormire ormai solo due ore per notte, prese a dirigere spiritualmente il gruppo di amiche, che la coadiuvavano nella carità quotidiana e si riunivano ogni settimana nella chiesa di Santa Maria Nova.
E durante uno di questi incontri, Francesca le invitò ad unirsi in una confraternita consacrata alla Madonna, restando ognuna nella propria casa, impegnandosi a vivere le virtù monastiche e di donarsi ai poveri.
Il 15 agosto 1425 festa dell’Assunta, davanti all’altare della Vergine, le undici donne si costituirono in associazione con il nome di “Oblate Olivetane di Maria”, in omaggio alla chiesa dei padri Benedettini Olivetani che frequentavano, pronunziando una formula di consacrazione che le aggregava all’Ordine Benedettino.
Nel marzo del 1433 Francesca poté riunire le Oblate sotto un unico tetto a Tor de’ Specchi, composto da una camera ed un grande camerone, vicino alla chiesa parrocchiale di Sant’Andrea dei Funari; e il 21 luglio dello stesso 1433, papa Eugenio IV eresse la comunità in Congregazione, con il titolo di “Oblate della Santissima Vergine”, in seguito poi dette “Oblate di Santa Francesca Romana”, la cui unica Casa secondo la Regola, era ed è quella romana.
Religiosa lei stessa, la santa morte
Si recava ogni giorno nel monastero da lei fondato, ma continuò ad abitare nel Palazzo Ponziani, per accudire il marito malato; dopo la morte del marito, con il quale visse in armonia per 40 anni, il 21 marzo 1436 lasciò la sua casa, affidandone l’amministrazione al figlio Battista e a sua moglie Mabilia de’ Papazzurri, e si unì alle compagne a Tor de’ Specchi dove fu eletta superiora.
Trascorse gli ultimi quattro nel convento, dedicandosi soprattutto a tre compiti: formare le sue figlie secondo le illuminazioni che Dio le donava; sostenerle con l’esempio nelle opere di misericordia alle quali erano chiamate; pregare per la fine dello scisma nella Chiesa.
Prese il secondo nome di Romana e così fu sempre chiamata dal popolo e dalla storia, perché Francesca fu tra i grandi che seppero riunire in sé, la gloria e la vitalità di Roma; il popolo romano la considerò sempre una di loro nonostante la nobiltà, e familiarmente la chiamava “Franceschella” o “Ceccolella”.
Francesca Romana insegnò alle sue suore la preparazione di uno speciale unguento, che aveva usato e usava per sanare malati e feriti; unguento che viene ancora oggi preparato nello stesso recipiente adoperato da lei più di cinque secoli fa.
Ma la ‘santa di Roma’ non morì nel suo monastero, ma nel palazzo Ponziani, perché da pochi giorni si era spostata lì per assistere il figlio Battista gravemente ammalato; dopo poco tempo il figlio guarì ma lei ormai sfinita, morì il 9 marzo 1440 nel palazzo di Trastevere.
Le sue spoglie mortali vennero esposte per tre giorni nella chiesa di Santa Maria Nova, una cronaca dell’epoca riferisce la partecipazione e la devozione di tutta la città; fu sepolta sotto l’altare maggiore della chiesa che avrebbe poi preso il suo nome.
Da subito ci fu un afflusso di fedeli, tale che la ricorrenza del giorno della sua morte, con decreto del Senato del 1494, fu considerato giorno festivo.
Fu proclamata santa il 29 maggio 1608 da papa Paolo V; e papa Urbano VIII volle nella chiesa di Santa Francesca Romana, un tempietto con quattro colonne di diaspro, con una statua in bronzo dorato che la raffigura in compagnia dell’Angelo Custode, che l’aveva assistita tutta la vita.
Santa Francesca Romana è considerata compatrona di Roma, viene invocata come protettrice dalle pestilenze e per la liberazione delle anime dal Purgatorio e dal 1951 degli automobilisti.
La sua festa liturgica è il 9 marzo.
Autore: Antonio Borrelli
+ Nei-Ko-Ri, Corea del Sud, 9 marzo 1866
I laici Pietro Ch’oe Hyong (nato a Gongju nel 1814) e Giovanni Battista Chong-Chang-Un (nato a Seoul nel 1811) condussero i genitori al battesimo e stamparono libri religiosi. Per questo motivo furono torturati e rimasero così saldi nella fede da suscitare meraviglia persino nei loro persecutori. Papa Giovanni Paolo II li ha canonizzati il 6 maggio 1984.
Martirologio Romano: Nel villaggio di Nei-Ko-Ri in Corea, santi Pietro Ch’oe Hyong e Giovanni Battista Chon Chang-un, martiri: padri di famiglia, amministrarono il battesimo e stamparono libri cristiani; sottoposti per questo a tortura, persistettero con costanza nella fede a tal punto da suscitare l’ammirazione dei loro persecutori.
Sebaste (Armenia), † 320
Martirologio Romano: Presso Sivas nell’antica Armenia, passione dei santi quaranta soldati di Cappadocia, che, compagni non di sangue, ma di fede e di obbedienza alla volontà del Padre celeste, al tempo dell’imperatore Licinio, dopo aver patito il carcere e crudeli torture, durante il rigidissimo inverno furono costretti a rimanere di notte nudi all’aperto su di uno stagno ghiacciato e, spezzate loro le gambe, portarono così a termine il loro martirio.
La vicenda dei Quaranta martiri di Sebaste in Armenia, è giunta fino a noi attraverso delle fonti letterarie, che per il fatto che non siano contemporanee e soprattutto perché riferiscono sermoni e tradizioni orali, non sono prive di incertezza e oscurità, nonostante siano antiche ed abbondanti.
Si citano qui solo i nomi degli autori dei discorsi inerenti i 40 martiri, pronunciati quasi tutti in occasione della loro festa, che tutti Martirologi storici, latini e greci, pongono al 9 marzo: s. Basilio Magno, s. Gregorio di Nissa, s. Gaudenzio di Brescia, s. Efrem, s. Gregorio di Tours, Sozomeno.
L’unico documento contemporaneo pervenutaci, è il “Testamento” scritto dagli stessi martiri in carcere e prima del supplizio; sebbene genuino, però non dà molto contributo alla ricostruzione storica della vicenda.
Ad ogni modo raccogliendo dalle varie fonti le notizie verosimili, si può ricostruire il glorioso avvenimento; nel 320 durante la persecuzione scatenata da Licinio Valerio (250 ca.- 325) imperatore romano, Augusto dal 303 e associato nel 313 da Costantino per l’impero d’Oriente; quaranta soldati provenienti da diversi luoghi della Cappadocia, ma tutti appartenenti alla XII Legione “fulminata” (veloce) di stanza a Melitene, furono arrestati perché cristiani.
Fu posta loro l’alternativa di apostatare o subire la morte, secondo i decreti imperiali, ma tutti concordemente rimasero fermi nella fede cristiana; pertanto furono condannati ad essere esposti nudi al freddo invernale e morire così per assideramento.
Durante l’attesa in carcere dell’esecuzione, scrissero per mezzo di uno di loro il “Testamento”, dove chiedevano di essere sepolti tutti insieme a Sareim, un villaggio identificato con l’odierna Kyrklar in Asia Minore, il cui nome significa appunto ‘Quaranta’, pregando i cristiani di non disperdere i loro resti; inoltre stabilirono che il giovane servo Eunoico, se fosse stato risparmiato dalla morte, potesse ritornare libero e fosse adibito alla custodia del loro sepolcro; infine dopo parole di esortazione ai fratelli cristiani, salutavano parenti ed amici, ed elencando alla fine i loro nomi.
La particolare minuzia nello stabilire il luogo di sepoltura, la raccomandazione di conservare il sepolcro e le reliquie, s’inquadra nel sentimento profondo dei primi cristiani, che davano un culto più o meno nascosto, alle reliquie dei martiri, fonte di coraggio, forza ed esempio per affrontare la morte, così vicina a chi professava la nuova religione cristiana.
Il martirio ebbe luogo il 9 marzo, nel cortile del ginnasio annesso alla Terme della città di Sebastia in Armenia (odierna Siwas in Turchia), sopra uno stagno gelato; sul luogo era stato preparato anche un bagno caldo per coloro che avessero voluto tornare sulla loro decisione.
Durante la lunga esecuzione, uno dei condannati Melezio, quello che aveva scritto personalmente il ‘Testamento’, non resse al supplizio e chiese di passare nel bagno caldo, ma lo sbalzo di temperatura troppo forte gli causò una morte istantanea.
Il suo posto però fu preso subito dal custode del ginnasio, colpito dalla loro fede e da una visione; si spogliò e gridando che era un cristiano, si unì agli altri riportando il numero dei martiri a 40, il suo nome è Eutico oppure Aglaio secondo le varie fonti.
Quando tutti morirono, i loro corpi furono portati fuori città e bruciati e le ceneri disperse nel vicino fiume. Nonostante questo gesto di disprezzo verso i martiri, parti di reliquie evidentemente poterono essere recuperate e venerate poi in diverse chiese, esse giunsero nei secoli successivi anche a Brescia, in Palestina, Costantinopoli, Cappadocia.
I loro nomi sono: Aezio, Eutichio, Cirione, Teofilo, Sisinnio, Smaragdo, Candido, Aggia, Gaio, Cudione, Eraclio, Giovanni, Filottemone, Gorgonio, Cirillo, Severiano, Teodulo, Nicallo, Flavio, Xantio, Valerio, Esichio, Eunoico, Domiziano, Domno, Eliano, Leonzio detto Teoctisto, Valente, Acacio, Alessandro, Vicrazio detto Vibiano, Prisco, Sacerdote, Ecdicio, Atanasio, Lisimaco, Claudio, Ile, Melitone e il già citato Eutico o Aglaio. Il giovane servo cristiano il cui nome Eunoico è presente nell’elenco, evidentemente non fu risparmiato.
Autore: Antonio Borrelli
Cornovaglia, 520 circa – Kintyre, Scozia, 9 maggio 576
Vissuto nel VI secolo, fu re dell’attuale Cornovaglia. Il primo periodo della sua vita fu a quanto si racconta “scellerato”. Sacrilego e pluriassassino, si sarebbe separato dalla moglie, figlia del re di Bretagna Armoricana, per essere più libero. Convertitosi al cristianesimo, cambiò radicalmente vita, abbandonò il trono e si ritirò in un monastero irlandese. Dopo sette di vita vissuta in austerità e penitenza, studiando le scritture, fu consacrato sacerdote e invitato in Scozia sotto la direzione di San Columba, per evangelizzare le popolazioni indigene. Lì fu martirizzato da fanatici pagani. La sua vita ci testimonia quale sia la potenza del Vangelo di Cristo che può portare cambiamenti radicali nella vita dell’uomo.
Etimologia: Costantino = che ha fermezza, tenace, dal latino
Emblema: Corona, Palma
Martirologio Romano: In Scozia, san Costantino, re, discepolo di san Colomba e martire.
In data odierna la Chiesa Cattolica festeggia il re San Costantino (Costentyn in cornico, Custennin in gallese, Constantinus in latino e Constantine in inglese), che coronò la sua travagliatissima esistenza con la corona del martirio, grazie alla quale il suo nome emerse dalle fitte nebbie medievali per imporsi alla devozione dei cristiani, in particolar modo nell’arcipelago britannico. Questo santo non va confuso con il celeberrimo imperatore, anch’egli venerato come santo specialmente dalle Chiese Orientali, sia cattoliche che ortodosse, e festeggiato al 21 maggio.
Tutto ciò che sappiamo di certo su sul santo di oggi è costituito dalle informazioni tramandate da Gildas, che ebbe a definirlo “cucciolo tirannico dell’impura leonessa di Damonia”. Si presuppone che in questo caso per Dumnonia si intenda la regione sud-occidentale dell’Inghilterra, cioè pressappoco la Cornovaglia, piuttosto che l’omonimo regno sviluppatosi nell’odierna Scozia. Costantino, nato verso il 520, ascese probabilmente al trono nel 537 dopo la morte di suo padre Cado. Gildas narra come il primo periodo della sua vita fu a dir poco “scellerato” e lo critica anche per aver ripudiato sua moglie, figlia del sovrano bretone Armoricana, allo scopo di commettere indisturbato parecchi adulteri. Inoltre, dopo aver giurato di voler fare la pace con i suoi nemici, si travestì da abate, entrò nel santuario dove questi si trovavano e li uccise spietatamente ai piedi dell’altare.
Anche il cavaliere arturiano Sir Costantino, che secondo l’“Historia Regum Britanniae” di Goffredo di Monmouth successe a re Artù sul trono di trono di Britannia, si sarebbe travestito da vescovo ed avrebbe ucciso in una chiesa i due figli di Mordred, con cui era in conflitto. Per tale motivo questa figura leggendaria a giudizio di alcuni potrebbe essere basata su quella storica di Costantino di Dumnonia.
Non pochi nobili personaggi in quell’area e nel medesimo periodo portano il nome di Costantino, fattore che rende ardua una netta distinzione fra di essi. Pare comunque cosa certa che il Costantino venerato come santo sarebbe quello convertitosi al cristianesimo grazie ad un incontro con San Petroc, anch’egli di nobile estrazione, dando così tangibile testimonianza della potenza del Vangelo di Cristo che può portare cambiamenti radicali nella vita di ogni uomo, anche del più accanito peccatore. In seguito alla conversione, morta la giovane moglie, abdicò in favore del figlio Bledric per dedicarsi alla vita religiosa.
Fondò chiese, attraversò il canale di Bristol e visse molti anni come monaco in Irlanda, cimentandosi nell’ascesi e nello studio delle Sacre Scritture, ricevendo addirittura dopo la dovuta preparazione l’ordinazione presbiterale. Si ritirò in eremitaggio a Costyneston (Cosmeston), nei pressi di Cardiff, e fu anche discepolo di San Columba di Iona e di San Kentingern. Spinto da questi grandi santi si spinse verso nord, ove fondò il monastero di Govan, ne divenne primo abate ed intraprese l’evangelizzazione dei Pitti, popolazione indigena dell’odierna Scozia. Fu in questo periodo e grazie al suo apostolato che tale paese si convertì al cristianesimo, assumendo il nome di “Scotia”.
Costantino, apostolo della Scozia, era destinato ad essere il primo martire a spargere il proprio sangue su quella terra per la sua fede nel Vangelo che andava predicando sulle pubbliche piazze: il 9 maggio 576 a Kintyre, infatti, fu trucidato da alcuni pagani fanatici e le rovine di un’antica chiesa a Kilchouslan segnano ancora oggi il luogo ove con ogni probabilità il santo spirò. Le sue spoglie mortali, ritrovate dai suoi discepoli, vennero traslate a Govon nella chiesa che prese a portare il suo nome. Nacque così una forte venerazione nei suoi confronti, che perdura sino ai giorni nostri.
La festa di San Costantino è celebrata il 9 marzo in Galles e Cornovaglia, l’11 marzo in Scozia ed il 18 marzo in Irlanda, anche se il Martyrologium Romanum lo commemora solamente in data odierna. E’ possibile, a seconda delle fonti, trovare questo santo citato come San Costantino di Cornovaglia, San Costantino di Dumnonia o San Costantino di Scozia. Tuttavia non va confuso, oltre che con il celebre imperatore, anche con altri santi sovrani vissuti in seguito sempre in Gran Bretagna e comunque non censiti dalla Bibliotheca Sanctorum: San Costantino re di Strathclyde, San Costantino I re di Scozia e San Costantino II re di Scozia.
PREGHIERE ORTODOSSE IN ONORE DI SAN COSTANTINO
Tropario
Rattristato per la perdita della tua giovane sposa,
tu hai rinunciato al mondo , o martire Costantino,
ma vedendo la tua umiltà
Dio ti ha chiamato a lasciare la tua solitudine
e servirlo come sacerdote.
Seguendo il tuo esempio,
noi preghiamo di avere la grazia di capire
che dobbiamo servire Dio secondo la sua volontà
e non come desideriamo,
per essere riconosciuti degni della sua misericordia.
Kondakion
Tu nascesti per esssere re di Cornovaglia,
o martire Costantino,
e chi avrebbe potuto prevedere
che tu saresti diventato il primo martire di Scozia.
Cantando le tue lodi, o santo martire,
noi riconosciamo la vanitàdi preferire
i progetti umani alla volontà del nostro Dio.
Autore: Fabio Arduino
+ Seoul, Corea del Sud, 11 marzo 1866
Martirologio Romano: In località Sai-Nam-Hte in Corea, santi Marco Chong Ui-bae, catechista, e Alessio U Se-yong, martiri, che per la loro fede cristiana furono dai loro stessi parenti ingiuriati e percossi.
Marco Chong Ui-bae nacque a Yongin, nella Corea del Sud, nel 1794 da una nobile famiglia pagana. Divenuto insegnante si sposò, ma da tale matrimonio non nacquero figli. Rimasto infine vedovo, fu colpito dalla gioia che lesse scolpita nei volti di due sacerdoti cattolici che aveva assistito durante il loro martirio. Fu così che Marco iniziò ad interessarsi a questa religione “occidentale”, leggendo libri sulla fede cattolica, fino a giungere alla decisione della conversione. Richiesto dunque ed ottenuto il battesimo, fu poi nominato catechista, ma oltre a ricoprire coscienziosamente trovò anche tempo e modo di occuparsi degli orfani e dei malati. Convolò anche a nuove nozze, decidendo in comune intesa con la nuova moglie di vivere in povertà e di adottare un figlio. Nel periodo delle feroci persecuzioni anticristiane che attraversarono la Corea, Marco aiutò parecchi cattolici a fuggire all’estero, ma egli preferì non abbandonare il paese. Il 25 febbraio 1866 venne dunque arrestato.
Alla vicenda di Marco Chong Ui-bae si lega quella del suo connazionale Alessio U Se-yong, nato nel 1847 a Seoheung da una nobile e benestante famiglia. Essendo venuto a conoscenza del cristianesimo per bocca di un catechista, volle incontrare il vescovo San Simeone Berneux, ma questi lo indirizzò proprio dal catechista Marco Chong per essere introdotto alla fede e ricevere il battesimo. Tornato a casa, dovette però confrontarsi con il disappunto dei familiari: preferì abbandonare la casa paterna per stabilirsi presso il suo padre nella fede, dedicandosi alla traduzione del Catechismo e di altri testi. Quando tutti i cattolici del villaggio vennero arrestati, preso dal timore Alessio rinnegò la sua fede e fu rilasciato. Subito però si pentì del misfatto e corse dal vescovo, detenuto in prigione, a confessargli l’accaduto, compresa la collaborazione data nel picchiare a morte un catechista. Fu inevitabile una sua nuova cattura e questa voltà sopportò con coraggio le torture cui fu sottoposto.
Insieme presso Seoul l’11 marzo 1866 Marco ed Alessio andarono incontro al martirio. La Chiesa non poté dimenticare la loro eroica testimonianza: sono stati beatificati il 6 ottobre 1968 ed infine canonizzati da Papa Giovanni Paolo II il 6 maggio 1984, insieme con altri numerosi testimoni della fede in terra coreana.
Autore: Fabio Arduino
Un santo sposato due volte... che dopo la conversione lascia la seconda moglie da cui ha un figlio, trovandole un altro marito e dandole una ricca dote, per tornare con la prima moglie...
Duyun, Cina, 1754 circa - Guiyang, Cina, 12 marzo 1815
Martirologio Romano: Nella città di Guiyang nella provincia del Guangxi in Cina, san Giuseppe Zhang Dapeng, martire, che, ricevuta la luce della fede, non appena battezzato aprì la sua casa ai missionari e ai catechisti e aiutò in ogni modo i poveri, i malati e i fanciulli; condotto al supplizio della croce, versava lacrime di gioia per essere stato fatto degno di morire per Cristo.
Giuseppe Zhang Dapeng nacque da una famiglia pagana primo di tre figli a Tou-yun-fou, nella provincia cinese dello Kouy-tcheou, verso l’anno 1754. Giuseppe fu un uomo profondamente religioso: inizialmente buddista, passò poi al taoismo. Per ragioni a noi ignote, all’età di circa quarant’anni lasciò Tou-yun-fou per trasferirsi a Kouy-yang, capoluogo della provincia. Qui si mise in società con Ouang, mercante di seta il cui figlio maggiore era momentaneamente a Pechino per sostenere alcuni esami. Ouang il giovane, una volta diplomatosi e ricevuto il battesimo con il nome di Saverio, fece ritorno a casa, si adoperò per la conversione di parenti ed amici, riuscendo a convincere al grande passo anche Giuseppe.
Dopo la conversione non mancarono però i problemi, primo fra tutti quello del suo secondo matrimonio, contratto dopo che la prima moglie non gli aveva dato alcun erede. Nonostante avesse già un figlio dalla seconda consorte, Giuseppe preferì concederle una dote e darla in sposa ad un altro cristiano. I suoi familiari, temendo per le loro ricchezze, si dimostrarono assai poco comprensivi, ma egli non abbandonò comunque la sua fede. Lo zio di Saverio, nel frattempo, reso furioso dalla conversione del nipote, lo denunciò a costo di scatenare violente persecuzioni. Giuseppe sfuggì alla palizia, ma Ouang dovette corromperla per proteggere suo figlio e sospese le celebrazioni liturgiche nei suoi locali.
Giuseppe decise allora di interrompere la collaborazione con lui e di mettersi in proprio come cambiavalute. Accettato come catecumeno nel 1798, con l’aiuto di altri cristiani acquistò una nuova casa ove potersi riunire ed alloggiare un missionario. Nel 1800 fu battezzato e due anni dopo ricevette per la prima volta l’Eucaristia. Il medesimo anno suo fratello denunciò i cristiani causando l’arresto di molti di loro, ma egli riuscì a fuggire. Tornato in città, Giuseppe iniziò un’intensa attività apostolica, convertendo parecchie persone Inoltre si prendeva cura dei poveri e dei malati, assisteva coloro che erano in fin di vita e dava sepoltura ai morti.
I fedeli, colpiti dalla sua attività, non tardarono a richiedere la sua nomina a capo della scuola e catechista, avvenuta nel 1808. Tre anni dopo, con l’avvento di un altro periodo di persecuzioni, Giuseppe fuggì a Hin-y-fou, mentre suo figlio Antonio fu arrestato e condannato all’esilio per non aver voluto rivelare il nascondiglio del padre. Per sfuggire ai controlli della polizia, Giuseppe andò verso nord, calorosamente accolto dai cattolici locali, ma invitato dal vescovo a fare ritorno a casa per prendersi cura dei fedeli. Egli obbedì, proseguendo dunque la sua opera di evangelizzazione seppur fra grandi pericoli.
Dal 1814 iniziarono però i suoi problemi più seri: suo cognato rivelò ove era nascosto e dunque fu arrestato. Rifiutò di rinnegare la sua fede in Cristo e non volle assolutamente essere liberato in cambio del riscatto dai parenti. Secondo i decreti imperiale anticattolici promulgati pochi anni prima, Giuseppe venne dunque condannato a morte. La notizia ufficiale, decisa dal vicerè nel novembre 1814 e dall’imperatore nel gennaio successivo, giunse solo nel marzo 1815 all’interessato, che rifiutò il consueto banchetto d’addio con i parenti e si ritirò in preghiera per prepararsi alla morte.
Il 12 marzo giunse l’ora del suo martirio: un battaglione di soldati lo condusse al luogo dell’esecuzione. Giuseppe si stagliava tra loro, alto, distinto, con barba e capelli bianchi, piangente per la gioia. Fu legato ad una croce ed un cappio gli strinse il collo. Ai suoi parenti che lo imploravano di abiurare, rispose esponendo il suo testamento spirituale: “Non piangete, sto andando in Paradiso”.
Questo intrepido testimone della fede fu beatificato nel 1909 ed infine canonizzato da Papa Giovanni Paolo II il 1° ottobre 2000, insieme ad altri 119 martiri in terra cinese.
Autore: Fabio Arduino
m. Samotracia, 12 marzo 817
Difensore delle immagini sacre, morì di privazioni in Bitinia, in Turchia, dove era stato deportato dall'imperatore iconoclasta Leone l'Armeno.
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Sigriana in Bitinia nel monastero di Campogrande, nell’odierna Turchia, deposizione di san Teofane, detto il Cronografo, che, da ricchissimo fattosi povero monaco, in quanto cultore delle sacre immagini fu tenuto in carcere per due anni dall’imperatore Leone l’Armeno e poi deportato a Samotracia, dove morì di stenti.
San Teofane potrebbe essere considerato come uno dei non pochi esempi di santità votata alla preghiera e nello stesso tempo conquistatrice della preghiera. In effetti niente potè arrestare il suo desiderio di abbracciare nella vita monastica preghiera e silenzio. Né la ricchezza familiare ereditata, né il fidanzamento imposto e sublimato, né il matrimonio; neppure le lusinghe della politica e il non breve addestramento militare.
A un certo momento della vita ottenne l'ordinazione sacerdotale e da allora vagò "nel silenzio" della terraferma e delle isole greche, spesso rifiutando le proposte di direzione delle comunità monastiche che lo accettavano o che egli stesso andava fondando. E' vero: gli rimase tempo di essere anche generoso coi fratelli. In effetti tutta la sua cospicua fortuna ereditata venne assai rapidamente distribuita ai poveri.
La commemorazione liturgica di S. Teofane ricorre il 12 marzo: nello stesso giorno dell'817 egli infatti morì nell'isola Samotracia dell'Egeo dove era stato esiliato quale conseguenza del suo costante rifiuto dell'iconoclastia. Egli sempre infatti, coerente col suo grande bisogno di preghiera e di contemplazione, difese il culto delle immagini anche contro imperatore e qualche patriarca che andarono scatenando, particolarmente in quei tempi, varie ondate iconoclastiche.
Come è noto Samotracia è famosa nella storia della scultura per un'opera "eterna" oggi esposta al Louvre: la "Vittoria alata". Ecco: proprio in quell'isola Teofane tagliò l'ultimo traguardo della sua vita vittorioso sulle ali della preghiera.
Autore: Mario Benatti
Una intera famiglia martire, padre, madre e figlia...
Martirologio Romano: A Nicomedia in Bitinia, nell’odierna Turchia, santi martiri Macedonio, sacerdote, Patrizia, sua moglie, e Modesta, sua figlia.
Il Martirologio Siriaco del sec. IV annuncia al 13 adar (= marzo) "a Nicomedia Modesto sacerdote martire e ventuno altri martiri". Allo stesso giorno, con qualche differenza, il Martirologio Geronimiano commemora, sempre a Nicomedia, "Macedonio sacerdote, Patrizia sua moglie e Modesta sua figlia "; non vi è dubbio però che si trattasse originariamente di una stessa commemorazione che subì varie corruzioni a seconda dei testi letterari che se la sono trasmessa.
In mancanza di una passio di questo gruppo di martiri di Bitinia, non si possono precisare né la dicitura esatta della commemorazione, né la loro precisa identificazione e, inoltre, si ignorano del tutto modo ed epoca del loro martirio.
I sinassari bizantini, pur tra i numerosi martiri di Nicomedia commemorati, ignorano del tutto questi tre, sia in quella abituale sia in altre date.
Attraverso il Geronimiano la commemorazione di Macedonio, Patrizia e Modesta è passata nel Mar" tirologio di Beda e dopo di lui a Floro, Adone e Usuardo. Anche P. De Natalibus dedica nel suo Catalogo a questi martiri una breve notizia precisando che tutti sono morti per ignem conflagrati e Baronio, nel Martirologio Romano, inizia con la notizia ad essi dedicata le commemorazioni del 13 marzo.
Autore: Joseph-Marie Sauget Fonte: Enciclopedia dei santi
Un vescovo che forse non fu vescovo e un martire che forse non fu martire, ma che certamente fu sposato e forse padre del Papa Damaso I!
Etimologia: Leone = leone, dal latino
Emblema: Bastone pastorale, Palma
Il solo codice Bernense del Martirologio Geronimiano lo ricorda il 14 marzo; alla stessa data fu inserito nel Martirologio Romano per decreto della S. Congregazione dei Riti nel 1871, dopo che erano stati trovati alcuni frammenti del suo epitaffio, già conosciuto per mezzo della Silloge Lauresbamense. Dal Liber Pontificalis, poi, apprendiamo che il suo sepolcro si trovava nella basilichetta dedicata a s. Stefano dal papa Simplicio (468-83) e che sorgeva in agro Verano accanto a quella di S. Lorenzo.
L'iscrizione però, probabilmente dettata dallo stesso Leone, non autorizza a ritenerlo un martire poiché in essa si dice che egli, ancora pagano, preparò, con i frutti del suo lavoro e per vanità mondana, tutto ciò che stava presso il suo sepolcro; più tardi disprezzando le ricchezze preferì seguire il Cristo e da quel momento ebbe a cuore di vestire gli ignudi e distribuire ai poveri le sue rendite annuali; in seguito si ascrisse tra il clero e meritò anche di essere fatto vescovo; morì ad oltre ottant'anni e fu sepolto il 14 marzo.
Il De Rossi, indotto dal dodicesimo verso dell'iscrizione in cui si legge "invidia infelix tandem compressa quiescet", ritenne Leone un martire autentico, poiché credette di vedervi un'allusione a persecuzioni ariane; ma contro questa ipotesi si può dire che in Italia le persecuzioni degli Ariani non furono così violente come in Oriente e non fecero vittime e nel sec. V, al quale con molta probabilità appartiene l'epitafio, gli Ariani non erano più così potenti, come del resto non lo erano stati neanche prima.
Il Marucchi a sua volta, dal nome Lorenza, moglie di Leone, citato nella stessa iscrizione, credette di identificare Leone col padre del pontefice Damaso I. Contro tale opinione però, a parte il fatto che secondo l'autore del Liber Pontificalis quello si sarebbe chiamato Antonio, sta l'accenno che lo stesso pontefice ne fa in un'altra iscrizione: egli fa supporre che il padre fosse cristiano ed entrasse tra il clero fin da giovane, che non si convertisse dal gentilesimo in età matura e che non morisse ad oltre ottanta anni, dal momento che la moglie rimase vedova per sessanta anni.
In conclusione bisogna dire che Leone non soltanto non fu un martire, ma dall'iscrizione non possiamo neppure ricavare elementi sufficienti per ritenerlo santo.
Autore: Agostino Amore Fonte: Enciclopedia dei Santi
Bella anche la figura di Santa Matilde
Engern, Sassonia, 895 circa - Quedlinburgo, Sassonia, 14 marzo 968
Da lei e da suo marito Enrico I (duca di Sassonia e più tardi re di Germania) discende la casata che conterà quattro imperatori: la famosa dinastia sassone. Educata nel monastero di Herford, in Westfalia, dove sua nonna era badessa, Matilde sa leggere e scrivere, un fatto non frequentissimo nelle grandi casate del tempo, e non si mantiene estranea alle vicende della politica. Quando nel 936 muore suo marito Enrico, lei non è molto favorevole al primogenito Ottone come successore e tenta di far proclamare re il più giovane Enrico. Si arriva a un conflitto tra i due fratelli. Dopo l'incoronazione imperiale di Ottone a Roma (962) la famiglia è riconciliata. Matilde si ritira nel monastero di Nordhausen, dove, dopo essersi spesa per i poveri e i malati, si ammala, e più tardi si trasferisce in un altro monastero: a Quedlimburgo, in Sassonia dove morirà. (Avvenire)
Etimologia: Matilde = forte in guerra, dal tedesco
Emblema: Corona, Globo, Scettro, Borsa di denaro, Modellino di chiesa
Martirologio Romano: A Quedlinburg in Sassonia, in Germania, santa Matilde, che, moglie fedelissima del re Enrico, fu insigne per umiltà e pazienza e si prodigò generosamente nell’assistenza ai poveri e nella fondazione di ospedali e monasteri.
Santa Matilde, discendente del duca Viduchindo, che aveva guidato i sassoni nella loro lunga battaglia contro Carlo Magno, nacque verso l’895 presso Engern in Sassonia da Teodorico, un conte della Westfalia, e da Rainilde, originaria della real casa danese. Ben presto Matilde fu affidata alle cure della nonna paterna, badessa di Herford, sotto la cui guida crebbe sana e forte, divenendo una donna bella, istruita e devota. Felice si rivelò il matrimonio con il figlio del duca Ottone di Sassonia, Enrico, detto “l’uccellatore” per la sua passione nella caccia del falco. Subito dopo la nascita del loro primogenito Ottone, Enrico succedette al padre e verso il 919, quando re Corrado di Germania morì senza prole, eredito anche il trono tedesco.
A causa delle frequenti guerre Enrico si allontanava spesso da casa e sia lui che i suoi sudditi attribuivano le vittorie conseguite alle preghiere ed al coraggio della regina Matilde, che nel suo palazzo conduceva a tutti gli effetti una vita monacale, generosa e caritatevole verso tutti. Suo marito nutriva nei suoi confronti una cieca fiducia e difficilmente si prendeva la briga di controllare le sue elemosine o si risentiva per le sue pratiche religiose. Nel 936, rimasta vedova, Matilde si spogliò immediatamente di tutti i suoi gioielli rinunciando ai privilegi tipici del suo rango.
Dall’unione tra Enrico e Matilde erano nati cinque figli: Enrico il Litigioso, il futuro imperatore Ottone I, San Bruno arcivescovo di Colonia, Gerburga moglie del re Luigi IV di Francia ed Edvige madre di Ugo Capeto. Enrico avrebbe preferito lasciare il trono al fratello Ottone, ma Matilde tentò di convincere i nobili ad eleggere comunque lui, suo prediletto, ma infine la spuntò Ottone. Enrico inizialmente si ribellò al fratello, ma infine riconobbe la sua supremazia e questi allora, per intercessione di Matilde, lo perdonò e lo nominò duca di Baviera. Suo figlio divenne poi imperatore col nome di Enrico II alla morte di Ottone I.
La regina Matilde conduceva una vita assai austera ed a causa delle sue ingenti elemosine si attirò le ire dei figli: Ottone la accusò infatti di sperperare il tesoro della corona, le richiese un rendiconto delle sue spese e la fece spiare per tenere sotto controllo ogni suo movimento, ma con suo grande dolore anche il figlio favorito Enrico si schierò con il fratello appoggiando la proposta di far entrare la madre in convento onde evitare ulteriori danni al patrimonio familiare. Matilde sopportò con estrema pazienza tutto ciò, constatando amaramente come i suoi figli si fossero riappacificati solo per perseguire i loro interessi a suo discapito. Lasciò allora tutta la sua eredità ai figli e si ritirò nella residenza di campagna ove era nata.
Era però destino che la Germania non potesse fare ameno di questa santa donna: appena partita, infatti, Enrico cadde ammalato e sorsero nuovi problemi politici. Sotto pressione del clero e dei nobili, la moglie di Ottone convinse questi a chiedere perdono alla madre, a restituirle il maltolto e richiamarla a partecipare agli affari di stato. Matilde tornò così a corte e riprese anche le sue opere di carità. Enrico continuò comunque ad essere per lei fonte di tormenti: si ribellò nuovamente al fratello Ottone e soppresse in modo sanguinoso una ribellione dei suoi sudditi bavaresi. Nel 955, quando Matilde lo vide per l’ultima volta, ne predisse la morte ed invano lo invitò a tornare sui suoi passi prima che fosse troppo tardi. Ottone invece mostrò rinnovata fiducia nella regina madre, lasciando a lei tutto il potere quando nel 962 dovette recarsi a Roma per ricevere la corona imperiale.
L’ultima riunione di famiglia ebbe luogo tre anni dopo a Colonia, in occasione della Pasqua, poi Matilde si ritirò definitivamente nei monasteri da lei fondati, in particolare a Nordhausen. Verso la fine del 967 una febbre che la disturbava ormai da tempo si aggravò ulteriormente e Matilde, presagendo la sua prossima fine, mandò a cercare Richburga, sua ex dama di compagnia ed ora badessa di Nordhausen, per spiegarle che doveva partire per Quedlinburg, luogo scelto con suo marito per la loro sepoltura. Nel gennaio 968 dunque si trasferì e suo nipote, Guglielmo di Magonza, le fece visita per darle l’assoluzione e l’estrema unzione. Desiderando ricompensarlo, non le restò però che donargli il suo sudario prevedendo che ne avrebbe avuto bisogno prima lui: Guglielmo morì infatti dodici giorni prima di lei.
La santa regina spirò il 14 marzo 968 e le sue spoglie mortali erano state appena deposte in chiesa quando giunse una coperta intessuta d’oro mandata dalla figlia Gerburga per adornare il feretro. Il corpo di Matilde venne sepolto accanto a quello del marito e subito iniziò la venerazione popolare nei suoi confronti. Nelle diocesi tedesche di Paderborn, Fulda e Monaco è ancora oggi particolarmente vivo il suo culto. L’iconografia è solita raffigurare Santa Matilde con in mano il modellino di una chiesa o una borsa di denaro, simboli della sua generosità e delle sue fondazioni monastiche, quali Poehlde, Enger, Nordhausen e ben due presso Quedlinburgo.
Autore: Fabio Arduino
Bella questa santa sposatasi due volte e per due volte vedova!
+ Fulda, Germania, 14 marzo 1107
Dopo la morte del suo secondo marito, cavalier Ulrico De Scharaplan, decise di entrare in monastero e chiese consiglio al papa che la indirizzò da Udone, abate di St. Blasien. Purtroppo però in quel periodo morirono sia l’abate che Moricho, padre di Paolina e fratello converso a Hirsau. Paolina decise quindi di ritirarsi con alcune compagne in una foresta in Turingia, dove fondò il monastero di Paulinzelle. La direzione fu affidata ad un monaco mentre Werner, figlio di Paolina, si occupava delle cose materiali come fratello converso. Paolina e le compagne lasciarono il monastero ai monaci e si ritirarono in un altro luogo. Nel 1107 Paolina si recò ad Hirsau per prendervi un gruppo di monaci riformati, ma durante il viaggio si ammalò e chiese di essere ricoverata nell’ospizio dei poveri di Munsterchwarzach. Qui ricevette la visita di 6 monaci destinati a Paulinzelle e del loro superiore Gerung che le diede i sacramenti. Morì il 14 marzo 1107.
Martirologio Romano: Nel territorio di Fulda in Germania, santa Paolina, religiosa.
Ferrieres, 1591 - 15 marzo 1660
Luisa (Ludovica) nasce nel 1591 a Ferrieres e ha un'infanzia agiata. Dopo il 1604, morto il padre, viene tolta dal regio collegio e affidata a una «signorina povera» (forse sua madre), che l'avvia al lavoro. In questo periodo matura il proposito di farsi religiosa. Ma i parenti la danno in sposa nel 1613 allo scudiero e segretario di Maria de' Medici, Antonio Le Gras. I frequenti colloqui con Francesco di Sales, incontrato la prima volta a Parigi nel 1618, aiutano Ludovica a superare le proprie sofferenze. Poi nel 1624, grazie all'incontro con Vincenzo de' Paoli, diventa cofondatrice dell'Istituto delle Figlie della Carità. Poco dopo, nel dicembre 1625, morto il marito ed entrato in seminario il figlio Michele, accoglie in casa sua le prime giovani venute dal contado per mettersi al servizio dei poveri, in collaborazione con le Dame della Carità. Era il primo nucleo della nuova congregazione, dai lei guidata fino alla morte, avvenuta nel 1660. (Avvenire)
Patronato: Assistenti Sociali
Martirologio Romano: A Parigi in Francia, santa Luisa de Marillac, vedova, che guidò con il suo esempio l’Istituto delle Figlie della Carità nell’assistenza ai bisognosi, portando a pieno compimento l’opera avviata da san Vincenzo de’ Paoli.
Tra le molteplici fondazioni di San Vincenzo de’ Paoli (1581-1660) spicca per innovazione quella delle Figlie della Carità avvenuta nel 1633, riprendendo l’esperienza delle Compagnie della Carità quando egli era parroco a Chatillon-les-Dombes non lontano da Lione.
Sua convinta collaboratrice dal 1629 al 1660, anno della morte di entrambi, fu Luisa di Marillac, una donna intelligente e preparata che capì l’importanza di rompere gli schemi tridentini tendenti a tenere le religiose in clausura escludendole dall’apostolato diretto.
Nel 1633 venne da San Vincenzo lanciata nel mondo assistenziale della nuova fondazione. Le vincenziane dovevano avere per monastero le case dei malati e dei poveri oltre a quelle che affittava la superiora e per chiostro tutte le vie delle città. Un’assistenza a trecentosessanta gradi sempre con il timore di Dio quale grata di confessionale e con la santa modestia quale velo sul capo.
Luisa ebbe una vita privata decisamente tribolata per quasi quarant’anni, nonostante il suo precoce desiderio di fuggire il mondo. Figlia naturale del nobile e parlamentare Luigi di Marillac, passò buona parte dei primi anni in un collegio e poi presso una nubile parigina, povera, che le diede tuttavia una certa educazione insegnandole, fra l’altro, cucito, ricamo e pittura. Si lasciò poi convincere a sposare nel 1613 Antoine Le Gras, scudiere e segretario della regina. I due si affezionarono ed ebbero un figlio, Michele. Sopravvennero difficoltà finanziarie, nel 1625 morì il marito e tre anni dopo Michele andò in seminario.
Luisa aveva già incontrato S. Francesco di Sales, il quale le predisse che un giorno Dio l’avrebbe chiamata ad altri compiti. Questi sarebbero poi stati svolti in effetti con successo e con eroismo, nonostante la cattiva salute, dopo l’affiancamento a San Vincenzo.
Per un’errata interpretazione del pensiero del santo francese che insisteva per una santità nascosta delle sue Figlie, passarono oltre duecento anni dalla morte di Luisa prima che iniziassero i processi diocesani. Fu finalmente beata nel 1920 con Benedetto XV e santa nel 1934 con Pio XI. Fu poi proclamata patrona delle assistenti sociali nel 1960 da Giovanni XXIII. La festa liturgica di Santa Luisa di Marillac ricorre il 15 marzo.
Autore: Mario Benatti
+ York, Inghilterra, 16 marzo 1589
Giovanni nacque presso Wakefield. Svolgeva la professione di fabbricante di tessuti ma alla morte della sua sposa decise di studiare a Reims per divenire sacerdote. Venne ordinato nel 1581 ma dopo pochi anni venne giustiziato a York il 16 marzo 1589. Suo compagno di martirio fu Roberto Dalby. Roberto nacque a Hemingborough intorno alla metà del XVI secolo. Per un certo tempo fu ministro protestante ma afflitto da una crisi religiosa arrivò fino al punto di tentare di uccidersi con una coltellata. Un sacerdote cristiano lo soccorse e lo confortò anche spiritualmente. Roberto decise di studiare a Reims per divenire sacerdote e venne ordinato nel 1588. Tornato in Patria venne arrestato a Scarborough e imprigionato e processato a York. Andò incontro al martirio con il suo volto illuminato di gioia. Beatificati nel 1929 da Papa Pio XI.
Martirologio Romano: A York in Inghilterra, beati Giovanni Amias e Roberto Dalby, sacerdoti e martiri, che, sotto la regina Elisabetta I, furono condannati a morte per il solo fatto di essere sacerdoti e si avviarono lieti all’impiccagione.
Di fatto non fu sposato, ma era promesso sposo, alla morte della fidanzata, a brevissima distanza dal matrimonio (aveva già comprato casa ed un vigneto) misteriosamente divenne improvvisamente sacerdote
Skoczow, Slesia, 20 dicembre 1576 - Olomouc, Moravia, 17 marzo 1620
Il martire moravo Giovanni Sarkander studiava teologia, ma era destinato al matrimonio. La fidanzata, però, morì prima delle nozze. Allora - nel 1608 a 32 anni - venne ordinato prete nella Compagnia di Gesù. La sua vita sacerdotale trascorse a Holesov, diocesi di Olomuc. Per questioni legate alla Guerra dei Trent'anni, la comunità gesuita - malvista dai nobili protestanti - fu dapprima esiliata in Polonia. Poi, al ritorno, Giovanni salvò Holesov dalle ire del re polacco Sigismondo III Wasa. L'episodio fu interpretato come connivenza col nemico (in realtà Giovanni era odiato per motivi di fede). Perciò fu imprigionato a Olomuc e torturato. Morì un mese dopo per le sofferenze subite. E' santo dal 1995.
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Olomouc in Moravia, san Giovanni Sarkander, sacerdote e martire, che, parroco di Holešov, rifiutatosi di violare il segreto della confessione, fu sottoposto al supplizio della ruota e, gettato in carcere ormai in fin di vita, morì un mese più tardi.
Giovanni Sarkander, nacque il 20 dicembre 1576 a Skoczów in Slesia, allora nel principato di Tesin, che dal 1291 faceva parte del regno di Boemia, era figlio di una nobildonna del ramo dei cavalieri di Kornice e di Giorgio Mattia d’origine più umile.
Dopo la morte prematura del marito nel 1589, la madre trasferì la famiglia composta da cinque figli, Giovanni, Nicola, Paolo, Venceslao e una figlia, a Príbor in Moravia, città appartenente al vescovo di Olomouc e dove già viveva il suo figlio del primo matrimonio Matteo Vlcnovsky.
Giovanni frequentò la scuola parrocchiale del paese e poi insieme al fratello Nicola si trasferì ad Olomouc per continuare gli studi superiori nel collegio dei Gesuiti. Ma nel 1599 a causa della peste, la scuola fu chiusa e così Giovanni fu costretto a completare gli studi filosofici dai Gesuiti di Praga, dove entrò il 20 ottobre 1600.
Due anni dopo era laureato, nel 1604 si trasferì a Graz in Austria, per gli studi di teologia, ma due anni dopo, il 3 settembre 1606 lasciò gli studi, promettendosi di sposare in Moravia con Anna Platská, appartenente ad una distinta famiglia luterana; comprò anche una casa a Brno e una vigna a Klobouky.
Non si hanno notizie precise, ma la fidanzata morì prima delle nozze e questo mutò le intenzioni di Giovanni Sarkander, che il 21 dicembre 1607 diede gli esami di teologia e il giorno seguente ricevette dal cardinale Dietrichstein gli Ordini minori nel castello di Kromeriz.
Il 22 marzo 1608 venne ordinato sacerdote a Brno; negli anni che vanno dal 1608 al 1616, trascorse la sua vita sacerdotale ricoprendo vari incarichi nelle parrocchie della diocesi di Olomouc; non tutto filò liscio, sia con le autorità ecclesiastiche che con quelle dell’imperatore d’Austria.
A Holesov i Gesuiti intendevano costituire un centro per la ricattolicizzazione della parrocchia, che era stata in balia della setta dei “Fratelli boemi”, (insieme di un movimento protestante molto forte in quel tempo specie in Boemia), inviando quindi i membri più abili, con l’intenzione di aprirvi anche una Casa di formazione dei gesuiti stessi, il suo nome fu consigliato dal cardinale e dal luogotenente di Moravia, come garanzia di sicuro successo.
Nel 1618 i nobili della Boemia, in maggior parte protestanti, si rivoltarono contro l’Impero d’Austria e anche una parte dei nobili della Moravia passò all’opposizione, al protettore di Giovanni Sarkander, il luogotenente Popel de Lobkovic fu tolto l’incarico e incarcerato a Brno e anche i Gesuiti, il 17 maggio 1619 dovettero lasciare Holesov.
Il Sarkander rimase solo come parroco, diventando l’oggetto dell’odio della maggioranza protestante degli abitanti; convinto dal suo decano e dai fedeli cattolici, si allontanò da Holesov andando a Cracovia, girando per un certo tempo a Czestochowa e Ratibor, poi ricevette una lettera del Popel che lo invitava a tornare a Holesov, cosa che fece a fine novembre 1619.
A febbraio 1620 nel corso della Guerra dei Trent’anni, la cavalleria del re polacco Sigismondo III Vasa, passando per la Slesia e la Moravia, diretta ad aiutare l’imperatore d’Austria, devastò e incendiò la regione. Holesov fu salvata perché Giovanni Sarkander con il cappellano Samuele Tucek uscì incontro alle truppe con una processione eucaristica.
Questo episodio però aumentò il sospetto dei nobili di Moravia contro il parroco, che credevano alleato di re Sigismondo; il nuovo giudice supremo della Moravia Venceslao Bitovsky fece allora incarcerare tutti i sacerdoti della regione, ma il Sarkander riuscì ad evitarlo, nascondendosi nel castello di Tovacov e da lì poi scappò nelle vicine foreste, ma qui venne catturato e condotto incatenato ad Olomouc, come traditore della patria.
L’odio degli accusatori, che lo sottoposero a ben quattro interrogatori, era scaturito per motivi religiosi, ma si mascherava con l’intento di farlo confessare di aver procurato l’intervento dei cosacchi. Con questo motivo politico fu sottoposto alla tortura del cavalletto e con le torce, per ben tre ore, solo le proteste dell’unico giudice cattolico del tribunale, fecero smettere la tortura, ma Giovanni Sarkander non sopravvisse al trattamento disumano e dopo un mese di sofferenze in carcere, morì il 17 marzo 1620.
Dopo la sua morte si instaurò subito un culto di venerazione, considerandolo come un martire della fede, essendo chiaro dalle testimonianze, che venne ucciso in odio alla fede cattolica, dai protestanti dell’epoca e non per motivi politici inesistenti. Il suo sepolcro nella chiesa cattedrale di S. Venceslao ad Olomouc, divenne meta di pellegrinaggi, di numerosi fedeli ma anche di sovrani tra i quali il re di Polonia Giovanni Sobieski nel 1683.
Il parroco e martire Giovanni Sarkander venne beatificato da papa Pio IX il 6 maggio 1860 e canonizzato da papa Giovanni Paolo II il 21 maggio 1995, ad Olomouc in Cecoslovacchia.
Autore: Antonio Borrelli
Questa celebrazione ha profonde radici bibliche; Giuseppe è l'ultimo patriarca che riceve le comunicazioni del Signore attraverso l'umile via dei sogni. Come l'antico Giuseppe, è l'uomo giusto e fedele (Mt 1,19) che Dio ha posto a custode della sua casa. Egli collega Gesù, re messianico, alla discendenza di Davide. Sposo di Maria e padre putativo, guida la Sacra Famiglia nella fuga e nel ritorno dall'Egitto, rifacendo il cammino dell'Esodo. Pio IX lo ha dichiarato patrono della Chiesa universale e Giovanni XXIII ha inserito il suo nome nel Canone romano. (Mess. Rom.)
Patronato: Padri, Carpentieri, Lavoratori, Moribondi, Economi, Procuratori Legali
Etimologia: Giuseppe = aggiunto (in famiglia), dall'ebraico
Emblema: Giglio
Martirologio Romano: Solennità di san Giuseppe, sposo della beata Vergine Maria: uomo giusto, nato dalla stirpe di Davide, fece da padre al Figlio di Dio Gesù Cristo, che volle essere chiamato figlio di Giuseppe ed essergli sottomesso come un figlio al padre. La Chiesa con speciale onore lo venera come patrono, posto dal Signore a custodia della sua famiglia.
Il nome Giuseppe è di origine ebraica e sta a significare “Dio aggiunga”, estensivamente si può dire “aggiunto in famiglia”. Può essere che l’inizio sia avvenuto col nome del figlio di Giacobbe e Rachele, venduto per gelosia come schiavo dai fratelli. Ma è sicuramente dal padre putativo, cioè ritenuto tale, di Gesù e considerato anche come l’ultimo dei patriarchi, che il nome Giuseppe andò diventando nel tempo sempre più popolare. In Oriente dal IV secolo e in Occidente poco prima dell’XI secolo, vale a dire da quando il suo culto cominciava a diffondersi tra i cristiani. Non vi è dubbio tuttavia che la fama di quel nome si rafforzò in Europa dopo che nell’Ottocento e nel Novecento molti personaggi della storia e della cultura lo portarono laicamente, nel bene e nel male: da Francesco Giuseppe d’Asburgo a Garibaldi, da Verdi a Stalin, da Garibaldi ad Ungaretti e molti altri ancora.
San Giuseppe fu lo sposo di Maria, il capo della “sacra famiglia” nella quale nacque, misteriosamente per opera dello Spirito Santo, Gesù figlio del Dio Padre. E orientando la propria vita sulla lieve traccia di alcuni sogni, dominati dagli angeli che recavano i messaggi del Signore, diventò una luce dell’esemplare paternità. Certamente non fu un assente. È vero, fu molto silenzioso, ma fino ai trent’anni della vita del Messia, fu sempre accanto al figliolo con fede, obbedienza e disponibilità ad accettare i piani di Dio. Cominciò a scaldarlo nella povera culla della stalla, lo mise in salvo in Egitto quando fu necessario, si preoccupò nel cercarlo allorché dodicenne era “sparito’’ nel tempio, lo ebbe con sé nel lavoro di falegname, lo aiutò con Maria a crescere “in sapienza, età e grazia”. Lasciò probabilmente Gesù poco prima che “il Figlio dell’uomo” iniziasse la vita pubblica, spirando serenamente tra le sue braccia. Non a caso quel padre da secoli viene venerato anche quale patrono della buona morte.
Giuseppe era, come Maria, discendente della casa di Davide e di stirpe regale, una nobiltà nominale, perché la vita lo costrinse a fare l’artigiano del paese, a darsi da fare nell’accurata lavorazione del legno. Strumenti di lavoro per contadini e pastori nonché umili mobili ed oggetti casalinghi per le povere abitazioni della Galilea uscirono dalla sua bottega, tutti costruiti dall’abilità di quelle mani ruvide e callose.
Di lui non si sanno molte cose sicure, non più di quello che canonicamente hanno riferito gli evangelisti Matteo e Luca. Intorno alla sua figura si sbizzarrirono invece i cosiddetti vangeli apocrifi. Da molte loro leggendarie notizie presero però le distanze personalità autorevoli quali San Girolamo (347 ca.-420), Sant’Agostino (354-430) e San Tommaso d’Aquino (1225-1274). Vale la pena di riportare soltanto una leggenda che circolò intorno al suo matrimonio con Maria. In quella occasione vi sarebbe stata una gara tra gli aspiranti alla mano della giovane. Quella gara sarebbe stata vinta da Giuseppe, in quanto il bastone secco che lo rappresentava, come da regolamento, sarebbe improvvisamente e prodigiosamente fiorito. Si voleva ovviamente con ciò significare come dal ceppo inaridito del Vecchio Testamento fosse rifiorita la grazia della Redenzione.
San Giuseppe non è solamente il patrono dei padri di famiglia come “sublime modello di vigilanza e provvidenza” nonché della Chiesa universale, con festa solenne il 19 marzo. Egli è oggi anche molto festeggiato in campo liturgico e sociale il 1° maggio quale patrono degli artigiani e degli operai, così proclamato da papa Pio XII. Papa Giovanni XXIII gli affidò addirittura il Concilio Vaticano II. Vuole tuttavia la tradizione che egli sia protettore in maniera specifica di falegnami, di ebanisti e di carpentieri, ma anche di pionieri, dei senzatetto, dei Monti di Pietà e relativi prestiti su pegno. Viene addirittura pregato, forse più in passato che oggi, contro le tentazioni carnali.
Che il culto di San Giuseppe abbia raggiunto in passato vette di popolarità lo dimostrano anche le dichiarazioni di moltissime chiese relative alla presenza di sue reliquie. Per fare qualche esempio particolarmente significativo: nella chiesa di Notre-Dame di Parigi ci sarebbero gli anelli di fidanzamento, il suo e quello di Maria; Perugia possiederebbe il suo anello nuziale; nella chiesa parigina dei Foglianti si troverebbero i frammenti di una sua cintura. Ancora: ad Aquisgrana si espongono le fasce o calzari che avrebbero avvolto le sue gambe e i camaldolesi della chiesa di S. Maria degli Angeli in Firenze dichiarano di essere in possesso del suo bastone. È sicuramente un bel “aggiunto” di fede.
Autore: Mario Benatti
Montegallo (Ascoli Piceno), 1425 - Vicenza, 19 marzo 1496
Martirologio Romano: A Vicenza, beato Marco de Marchio da Montegallo, sacerdote dell’Ordine dei Minori, che per sovvenire alle necessità dei poveri creò l’opera chiamata Monte di Pietà.
Questo grande francescano visse negli anni che videro le grandi navigazioni di Cristoforo Colombo e la scoperta dell’America. Marco figlio del feudatario Chiaro de Marchio, nacque nel 1425 a Montegallo nei pressi di Ascoli Piceno, dove la sua famiglia si era ritirata per sfuggire alle feroci lotte delle opposte fazioni, che imperversavano in Ascoli.
Il padre comunque volle ritornare in città, per dare la possibilità di studiare a Marco, che in seguito passò alle Università di Perugia e di Bologna, dove si addottorò in legge e in medicina.
Tornato ad Ascoli esercitò per un certo tempo la professione di medico; nel 1451 per assecondare i voleri del padre sposò Chiara de’ Tibaldeschi di nobile famiglia, ma con la quale convisse castamente; l’anno successivo morì il padre e gli sposi di comune intesa scelsero la vita religiosa, lei entrando tra le clarisse del convento di S. Maria “delle donne” in Ascoli e lui tra i Francescani Osservanti.
Questo fenomeno di sospensione del vincolo matrimoniale con successiva scelta di una vita consacrata per entrambi o a volte per uno solo dei coniugi, in quei secoli non era cosa rara e tante figure di eminente santità, furono il frutto di tale scelta.
Come Francescano Marco de Marchio, fece il noviziato a Fabriano, poi fu come superiore a San Severino, sotto la guida del confratello e corregionale s. Giacomo da Monteprandone detto ‘della Marca’ che insieme a s. Bernardino da Siena e s. Giovanni da Capestrano, costituivano gli alfieri dell’evangelizzazione del secolo XV e primi fautori dell’apostolato sociale.
Prese ad operare contro le due principali piaghe del secolo: le discordie civili e l’usura usata in prevalenza dagli ebrei; svolse la sua intensa attività dal 1458 al 1496, patrocinando la pace e il bene pubblico ad Ascoli, Camerino, Fabriano e combattendo l’usura, che condizionava pesantemente la vita delle famiglie, istituendo i Monti di Pietà.
Insieme con il beato Domenico da Leonessa costituì il Monte di Ascoli nel 1458; in seguito da solo istituì quelli di Fabriano (1470), Fano (1471), Arcevia (1483), Vicenza (1486) e non è certo, anche quelli di Ancona, Camerino, Ripatransone; restaurò quello di Fermo.
In un suo soggiorno a Venezia, si rese conto che la nuova tecnica della stampa, era un potente mezzo per diffondere il Vangelo, egli stesso diede alla stampa il suo primo trattato “Libro intitulato” e altri volumi successivamente.
Nel 1494 a Firenze stampò “La tabula della Salute”, nel 1495 a Siena per la predicazione quaresimale, decise la riedizione del “Libro intitulato”. Quattro capitoli de “La tabula della Salute” riguardano l’usura che Marco condanna come mezzo di perversione; egli associa però nella condanna sia chi chiede prestiti ad interesse, sia chi li concede, perché secondo lui entrambi violano il comandamento di Dio che ordina di amare il prossimo e vieta di provocarne la rovina materiale o spirituale.
Egli non era il solo fra i francescani dell’epoca a sostenere la tesi della gratuità del prestito, perché la carità è la regina di tutte le virtù cristiane e nell’ottica della carità non c’è posto per l’usura, ma nemmeno per il prestito ad interesse.
Comunque tale tesi non era condivisa da altri francescani prima fra tutti s. Bernardino da Feltre e nel Capitolo Generale tenuto a Firenze il 28 maggio 1493, fu deciso che i ‘Monti di Pietà’ dessero i prestiti con un minimo d’interesse; era anche l’epoca del sorgere degli Istituti di Credito, per il cui funzionamento occorrevano degli oneri.
Mentre era a Vicenza per predicare, fu colto da malore e morì il 19 marzo 1496; venne sepolto nella chiesa di S. Biagio Vecchio. Il culto sorto dopo la sua morte, ebbe una definitiva conferma da papa Gregorio XVI, il 20 settembre 1839.
La sua celebrazione ha varie date, ma il ‘Martyrologium Romanum’ lo elenca al 19 marzo.
Autore: Antonio Borrelli
VIII secolo
Figlio di Stefano Khosroid, principe di Cakheth, combatté insieme al fratello Mihr o Mirian, allora re della Georgia, gli invasori arabi che, guidati dall’emiroMurvan-Qru, nipote di Maometto, li avevano assaliti mentre erano accampati ad Anakopia. Alla morte di Mihr, privo di discendenza maschile, gli succedette Archil II. Nel quarantesimo anno di regno, gli arabi invasero nuovamente il territorio georgiano al comando di un altro discendente di Maometto: Cicum, detto anche Asim, il quale percorse gran parte della regione mettendo a ferro e fuoco i paesi che lasciava alle spalle. Per scongiurare ulteriori devastazioni Archil II decise di chiedere la pace all’invasore e porre il paese sotto la sua protezione, purché fossero risparmiate le chiese e non fossero usate le violenze messe in atto altrove per costringere i nuovi sudditi a rinnegare la fede cristiana. Ricevuto degnamente dal capo arabo, Arcil II qualche giorno dopo ricevette la promessa di doni considerevoli in cambio dell’abiura. Fermo nella fede, il re oppose ai subdoli artifici di Cicum queste chiare parole: “Dio mi preservi dall’accogliere le tue lusinghe e dal rinnegare Cristo, il Dio vivente, il vero Dio, che per redimerci è morto per noi sulla croce. Se io credessi alle tue profferte sarei condannato al tormento eterno; ma se mi ucciderai, resusciterò come il mio Dio e sarò glorificato con lui”. Adirato per il rifiuto, Cicum fece gettare Arcil in prigione per intimidirlo e aumentò l’offerta promettendogli questa volta la restituzione del regno e dei beni, la concessione di vari privilegi se avesse abbracciato la fede islamica. Ma non ottenne da parte di Arcil che un secondo rifiuto: “Non rinnegherò mai il Signore mio Dio e non baratterò mai la gloria eterna per una gloria passeggera”. Cicum ordinò quindi che gli venisse mozzata la testa: era il 20 marzo del 718, secondo alcuni, del 741 o 744, secondo altri. Con maggiore verisimiglianza gli “Annali georgiani” pongono la data del martirio di Arcil II nel 786, anno dell’invasione di Cicum (permettendo di stabilire il 736 e il 786 come limiti del periodo di governo di Arcil II).
La sera prima dell’esecuzione il corpo del re martire fu prelevato dal campo arabo e sepolto in una chiesa di Notcora.
La festa del santo è celebrata nell’attuale Calendario Georgiano il 20 marzo, ai primi di gennaio nel Lezionario di Gerusalemme, al giorno 8 nell’elenco dei santi georgiani inserito nel Lezionario di Parigi ed al 15 nel Calendario palestino-georgiano del X secolo.
Autore: Niccolò del Re Fonte: Bibliotheca Sanctorum
Giorno ricchissimi di santi sposati! Anche se, il matrimonio, per la maggioranza di loro, sembra apparire un "ostacolo" alla santità piuttosto che una via di santificazione...
Sta a noi sposi mostrare come il matrimonio sia via eccellente di santificazione... e questa lista di santi sposi, vuole essere uno stimolo a meditare sulle cose che ci realizzano in pienezza e a quelle che invece ci allontanano dal vero "Bene".
Tepatitlán, Messico, 11 agosto 1888 – Atotonilco, Messico, 21 marzo 1928
Nasce a Tepatitlán, Messico, l'11 agosto 1888, figlio di contadini. Da bambino aiuta sua madre rimasta vedova. Diventa un instancabile promotore della dottrina sociale della Chiesa e nelle fila dell'Associazione cattolica della gioventù messicana trova l'ambiente adatto alla sua formazione religiosa e morale. Pur tra mille difficoltà, Miguel si iscrive alla facoltà di giurisprudenza e diventa avvocato. Difendere i diritti dei bisognosi, per tale ragione viene arrestato cinquantanove volte e molte altre viene picchiato. Nel 1922 si sposa con María Guadalupe Sánchez Barragán: dal matrimonio nascono tre figli. Nel 1927, durante la persecuzione religiosa messicana, Miguel si unisce alla Lega in difesa della libertà religiosa, utilizzando tutti i mezzi pacifici consentiti per resistere agli attacchi dello Stato alla libertà di fede. Accetta la nomina di governatore di Jalisco, conferitogli dai cattolici della resistenza ma, perseguitato dalle forze federali, viene catturato e fucilato il 21 marzo 1928. È stato beatificato il 20 novembre 2005 da Benedetto XVI. (Avvenire)
Miguel Gómez Loza nacque a Tepatitlán l’11 agosto 1888, figlio di contadini. Sin da bambino si occupò di sua madre, rimasta vedova, nel paese di Paredones. Nutrì però sempre il desiderio di superare se stesso nel campo della scienza e delle virtù. Sin da giovane fu un instancabile promotore della dottrina sociale della Chiesa. Insieme al suo grande amico Anacleto González Flores, nelle fila dell’Associazione Cattolica della Gioventù Messicana (ACJM), trovò l'ambiente adatto alla sua formazione religiosa e morale e al suo anelito apostolico.
Pur affrontando mille difficoltà, Miguel si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza e divenne così avvocato. Uomo coraggioso, dalle profonde convinzioni, nulla lo spaventò mai nei suoi propositi, sapendo infatti che erano giusti, leciti e dovuti. Per difendere i diritti dei bisognosi, fu arrestato cinquantanove volte e molte altre fu malmenato. Nel 1922 si sposò con María Guadalupe Sánchez Barragán. Da questo matrimonio nacquero tre figli.
Nel 1927, durante la persecuzione religiosa messicana, Miguel si unì alla Lega in Difesa della Libertà Religiosa, utilizzando tutti i mezzi pacifici consentiti per resistere agli attacchi dello Stato alla libertà di fede. Per difendere la libertà e la giustizia, accettò la nomina di Governatore di Jalisco, conferitogli dai cattolici della resistenza. Perseguitato dalle forze federali, fu infine catturato e fucilato presso Atotonilco il 21 marzo 1928.
Miguel Gómez Loza è stato beatificato il 20 novembre 2005, sotto il pontificato di Benedetto XVI, insieme con altre vittime della medesima persecuzione.
Autore: Fabio Arduino
Langasco, Genova, 2 ottobre 1791 - Ronco Scrivia, Genova, 21 marzo 1858
Figlia di contadini, nacque il 2 ottobre 1791, nell'entroterra genovese. Nel 1804 si trasferì a Pavia. Pur sentendosi votata alla vita religiosa accettò, per esigenze familiari, di sposare Giovan Battista Frassinello, operaio e fervente cristiano, originario di Ronco Scrivia. Non ebbero figli. Allora Benedetta, con il consenso del marito, cercò di realizzare il desiderio di consacrarsi interamente a Dio. Accolta dalle suore Orsoline di Caprioglio, nel Bresciano, dovette lasciare per motivi di salute. Rifugiatasi nella preghiera, ebbe la visione di san Girolamo Emiliani che la guarì. Mentre il marito entrò come fratello laico tra i Somaschi, lei avviò un'opera di assistenza per le fanciulle povere. Nel 1827 fondò a Pavia la prima scuola popolare. Dalle ragazze che la frequentavano prese avvio la Congregazione delle Suore di Nostra Signora delle Provvidenza. Dodici anni dopo a Ronco Scrivia nascerà la Casa della Provvidenza. Morì a Ronco Scrivia il 21 marzo 1858. È stata canonizzata da Giovanni Paolo II il 19 maggio 2002. (Avvenire)
Etimologia: Benedetta = che augura il bene, dal latino
Martirologio Romano: A Ronco Scrivia in Liguria, santa Benedetta Cambiagio Frassinello, che spontaneamente rinunciò insieme al marito alla vita coniugale e fondò l’Istituto delle Suore Benedettine della Provvidenza per la formazione cristiana delle giovani povere e abbandonate.
Benedetta Cambiagio nacque il 2 ottobre 1791 nell’entroterra genovese in una famiglia di contadini, ultima di sette fratelli. Quando nel 1804 una folta colonia di contadini si spostarono verso Pavia, anche la sua famiglia si aggregò ad essi.
Nella nuova residenza trascorsero gli anni e Benedetta ormai adulta, pur sentendosi votata per la vita religiosa, si indirizzò verso il matrimonio per esigenze familiari. Giunta ai 25 anni, si unì in matrimonio con Giovan Battista Frassinello, originario di Ronco Scrivia, operaio emigrato anch’egli a Pavia, fervente cristiano.
Purtroppo dalla loro unione non nacquero figli, allora Benedetta con il consenso del marito, cercò di realizzare il sogno della sua gioventù, quello di dedicarsi alla vita consacrata; dopo un fallito tentativo con le cappuccine di Genova, venne accolta dalle suore Orsoline di Capriolo in provincia di Brescia, ma dovette lasciare dopo pochi mesi a causa della salute malferma.
Rifugiatosi nella preghiera, ebbe la visione di s. Girolamo Emiliani il quale miracolosamente la guarì. Il marito entrò come fratello laico tra i somaschi e lei prese a mendicare casa per casa dando così inizio ad un’opera di assistenza per la fanciulle povere e abbandonate.
Nel 1827 fondava a Pavia la prima scuola popolare della città; quattro anni dopo le fanciulle superavano il centinaio e altre persone di buona volontà le si affiancarono per aiutarla nello scopo. Esse costituirono il primo gruppo della nascente Congregazione delle Suore di Nostra Signora della Provvidenza, che Benedetta fondò in quel periodo.
Trascorsero dodici anni di intenso e fruttuoso lavoro ma gli anticlericali locali presero ad osteggiarla furiosamente, al punto che la fondatrice dovette lasciare Pavia e cercare un nuovo posto e insieme a tre suore aprì a Ronco Scrivia (città natale di suo marito) una scuola, con l’accoglienza anche di ragazze benestanti e altre opere di carità. Fu chiamata “Casa della Provvidenza” ed è attualmente la casa madre della Comunità.
Le sue suore furono chiamate dal popolo ‘benedettine’ facendo riferimento al nome della fondatrice.
Morì a Ronco Scrivia il 21 marzo 1858 e sepolta nel cimitero del paese, durante la seconda guerra mondiale nel 1944, un furioso bombardamento alleato sconvolse il piccolo cimitero e le sue reliquie furono disperse.
Le sue suore tornarono a Pavia più di un secolo dopo, nel 1961, nell’Istituto “Benedetta Cambiagio”.
Beatificata da papa Giovanni Paolo II il 10 maggio 1987, è stata poi elevata agli onori degli altari come santa il 19 maggio 2002 dallo stesso pontefice.
Elevato esempio di sana vita coniugale, impregnata di virtù cristiana reciproca dei due coniugi.
Antonio Borrelli
E' la penultima di cinque figli di Giuseppe Cambiagio e Francesca Ghiglione. Sono piccoli proprietari di campagna, che verso il 1804 devono emigrare, come altre famiglie contadine impoverite dalla guerra napoleonica. Si stabiliscono a Pavia, dove nel 1812 va sposa la maggiore delle figlie, Maria. In Benedetta sembra crescere la spinta alla vita contemplativa. Ma nel 1816 eccola sposa, a 25 anni, nella basilica di San Michele.
E pure lo sposo è di origine ligure: Giovanni Battista Frassinello, nato a Ronco Scrivia. Seguono due anni di vita coniugale, senza figli, e poi marito e moglie si trovano a fare quasi da padre e da madre a Maria, la sorella maggiore di Benedetta: è tornata a Pavia malata di cancro, accolta in casa da loro due, e assistita per anni. Accanto al letto dell’ammalata, matura in essi una doppia vocazione: in Benedetta riprende forza l’aspirazione dei suoi anni giovanili alla vita religiosa; e una “chiamata” simile raggiunge Giovanni, che entra come novizio tra i Somaschi. Lei invece viene accolta fra le Orsoline di Capriolo (Brescia). Ma il suo fisico non regge, deve tornare a Pavia e mettersi a letto. Qui arriva una guarigione di sorprendente rapidità, che lei attribuisce all’intercessione di Girolamo Emiliani, il santo che ha fondato i Somaschi, pionieri dell’istruzione popolare. Guarita, dunque, e definitivamente orientata.
A 36 anni, sull’esempio di Girolamo Emiliani, Benedetta dedicherà la vita alla promozione culturale e all’educazione religiosa delle bambine abbandonate. Raccoglie alcune volontarie, mette a disposizione quello che ha di suo, si fa questuante. Trova anche l’aiuto di alcuni generosi (e tra questi si deve ricordare Angelo Domenico Pozzi). Il vescovo di Pavia, monsignor Luigi Tosi, decide allora che Giovanni Frassinello, lasciata la casa dei Somaschi, affianchi Benedetta nel suo lavoro di fondatrice. Così, nell’autunno del 1826, insieme rinnovano davanti al vescovo il voto di castità. Nel 1827 apre la prima scuola popolare, con l’aiuto delle prime volontarie. Col tempo, l’autorità civile (quella austro-ungarica) le conferirà il titolo di “Promotrice della pubblica istruzione”. Ma lei nel 1838 deve lasciare Pavia e la scuola, con Giovanni e con alcune ragazze: troppe avversioni, anche da parte di preti. Si stabilisce a Ronco Scrivia, paese natale del marito, Regno di Sardegna e diocesi di Genova. Qui, l’arcivescovo cardinale Tadini promuoverà i riconoscimenti canonici per le suore-insegnanti, che si chiameranno Benedettine della Divina Provvidenza. E il terzo millennio le vedrà all’opera in Italia, Spagna, Burundi, Costa d’Avorio, Perú, Brasile; impegnate, come dice la loro regola, a «prestarsi volentieri dove è maggiore l’urgenza di fare del bene».
Benedetta vede solo i primi sviluppi dell’opera, tra cui la nascita di una casa ricovero a Pavia. La malattia di cui morirà (nell’ora e nel giorno da lei previsti) la coglie mentre sta andando ad aprire una nuova casa. Sepolta a Ronco Scrivia, i suoi resti sono andati dispersi nella distruzione del cimitero durante la seconda guerra mondiale, per un bombardamento anglo-americano nel 1944. Giovanni Paolo II l’ha beatificata nel 1987 e poi canonizzata nel 2002.
Autore: Domenico Agasso Fonte: Famiglia Cristiana:
m. 480
Martirologio Romano: A Lauconne nel territorio di Lione, in Francia, anniversario di san Lupicino, abate, che insieme al fratello san Romano diede impulso alla vita monastica tra i pendii del Giura.
Lupicino dopo la morte della sua sposa si ritirò presso il fratello, Romano, che viveva in solitudine. Insieme, fondarono due monasteri: Condat, chiamato più tardi Saint-Oyend (S. Eugendus) e quindi Saint-Claude, e Lauconne, chiamato in seguito S. Lupicino. I due fratelli dirigevano contemporaneamente le comunità, ma L., più austero per se stesso, si dimostrò assai più rigido di Romano nel mantenere la disciplina ed osservare la regola e più severo anche nel reclutamento. Alla morte di Romano, Lupicino assunse il governo dei due monasteri.
Fu protettore delle popolazioni circostanti e, in particolar modo, assunse le difese del conte Agrippino contro il re burgundo. Mori nel 480.
La biografia di Lupicino, Romano e Oyend (Eugendus), fu redatta da un monaco di Condat poco dopo la morte dì quest'ultimo (516 o 517), di cui aveva raccolte le informazioni. Pubblicando questo documento, B. Krusch gli nega ogni autorità storica, ma il Duchesne, il Poupardin e il Delehaye riconoscono il suo valore. Esiste anche un'altra biografia di Lupicino e Romano dovuta a Gregorio di Tours, ma di minor valore.
Le reliquie di Lupicino furono traslate un 3 luglio pochi anni dopo la sua morte; una ricognizione effettuata nel 1689 rivelò che il corpo si era conservato intatto. Fino alla Rivoluzione francese, il .6 giugno di ogni anno le reliquie erano solennemente trasportate da S. Lupicino fino alla chiesa del capitolo di Saint-Claude.
Usuardo ha posto la festa di Lupicino al 21 marzo, data conservata dal Martirologio Romano. Lupicino, Romano e Oyend sono chiamati santi benedettini, perché i loro monasteri, per quanto anteriori a s. Benedetto, hanno successivamente adottata la Regola benedettina. Il Wion, per aggirare la difficoltà, pone Lupicino un secolo più tardi. Oggi Lupicino e Romano sono festeggiati insieme, nelle diocesi di Besancon e di Belley, al 28 febbraio.
Autore: Rombaut Van Doren Fonte: Enciclopedia dei Santi:
Flueli, Svizzera, 1417 - Sachseln, Svizzera, 21 marzo 1487
S. Nicola di Flue, meglio noto col nome di Bruder Klaus (fratello Klaus), gode di larga popolarità nella Svizzera, di cui è stato proclamato patrono da Pio XII e in cui viene festeggiato il 25 settembre. Egli nacque nel 1417 a Fliieli, presso Sachseln, nel cantone di Obwalden. Benchè si sentisse chiamato alla vita eremitica (a 16 anni ebbe la cosiddetta "visione della torre"), dovette accettare alcune cariche civili (fu podestà di Sachseln, consigliere e giudice cantonale e deputato alla dieta) e militari. Nel 1445 si sposò con Dorothea Wyss: nacquero loro cinque maschi e cinque femmine: uno di essi divenne parroco di Sachseln e un nipote, Corrado Scheuber, morì in concetto di santità. Sollecitato da Mattia di Bolsheim e Aimo Amgrund, entrò in contatto con i Gottesfreunde (amici di Dio), un movimento religioso alsaziano. La moglie di Nicola però si oppose costantemente ai suoi piani di solitudine. Solo dopo aver compiuto i 50 anni, nel giugno 1467, egli potè partirsene per l'Alsazia. Ma il Signore lo voleva in una località molto più prossima alle regioni abitate fino allora. D'altronde egli si vergognava di questa specie di "fallimento" e si ritirò dapprima presso Klisterli-Alp nel Melchtal. La sua santa vita e il suo rigoroso digiuno (esistono inequivocabili testimonianze storiche che egli per un periodo di 19 anni e mezzo si alimentò unicamente dell'Eucarestia) gli procurarono ben presto la curiosità dei vicini. Egli decise allora di recarsi nel Ranft, un burrone solitario presso Flueli. Ne usciva solo per recarsi alla Messa e quando la patria ebbe bisogno di lui: nel 1473 di fronte alla minaccia austriaca, e nel 1481 e 1482 quando ci fu grave pericolo di guerra civile: i buoni risultati di questi interventi propiziarono a Bruder Klaus il titolo di "Padre della Patria". La sua preghiera più frequente era: "0 mio Signore e mio Dio, allontana da me tutto ciò che mi allontana da te. - 0 mio Signore e mio Dio, elargiscimi tutto ciò che mi porta più vicino a te. - 0 mio Signore e mio Dio, liberami da me stesso e concedimi di possedere soltanto te". Edificati dalla sua testimonianza di preghiera e di penitenza (lo spiarono per un mese intero), i suoi vicini costruirono per lui un eremitaggio e una cappella, consacrata nel 1469. S. Nicola di Flue morì il giorno del suo 70' compleanno, il 21 marzo 1487. Nel 1501 venne compilata da Enrico Wólflin una sua biografia sulla base di "fatti accertati con giuramento da testimoni oculari ed auricolari". Beatificato nel 1669, venne canonizzato da Pio XII nel 1947.
Patronato: Svizzera
Etimologia: Nicola = vincidore del popolo, dal greco
Martirologio Romano: Sul dirupo montano di Ranft presso Sachseln in Svizzera, san Nicola di Flüe: chiamato da divina ispirazione a più grandi opere, lasciati la moglie e dieci figli, si ritirò tra i monti a condurre vita eremitica; celebre per lo stretto rigore di penitenza e il disprezzo del mondo, una sola volta uscì dalla sua piccola cella, sotto la minaccia di una guerra civile, per riconciliare con una breve esortazione le parti avverse.
Nicola della Flue (1417-1487), figlio di poveri contadini del cantone di Unterwalden in Svizzera, pastore e padre di dieci figli, dall’età di 23 anni serve come capitano nell’esercito della Confederazione Svizzera, battendosi con la spade in una mano e Rosario nell’altra. Tornato a casa carico di decorazioni, rifiuta di assumere la carica di sindaco che gli è offerta, affermando che le sue umili origini non lo rendono adatto al ruolo. Accetta invece l’incarico di giudice, che esercita in modo esemplare per nove anni. Dalla più giovane età e per tutta la vita è favorito da visioni celesti. Famosa è quella del giglio che esce dalla sua bocca e cresce fino al Cielo: ma mentre il santo lo contempla il giglio si accartoccia su se stesso, cade ed è divorato da un cavallo. Infine, con il permesso della moglie, si ritira a vita eremitica a Ranft, a poche miglia dalla sua casa, dedicandosi alla cura della sua anima, per lunghi mesi miracolosamente nutrito dalla sola Eucarestia che riceve una volta al mese. Ma è un eremita molto attivo: a lui vengono non solo pellegrini in cerca di consiglio spirituale ma anche i dignitari dei cantoni svizzeri in lotta tra loro che gli chiedevano di esercitare mediazioni in cui ebbe sempre successo. I pellegrinaggi alla tomba di questo santo nazionale della Svizzera continuano ancora oggi con grande fervore.
Propongo sei punti di meditazione.
PRIMO: a quel tempo, come oggi, la Svizzera era uno Stato genuinamente federale, fondato sull’autonomia dei cantoni. Ogni cantone era quasi completamente indipendente, e l’autorità centrale della Confederazione era piuttosto vaga. Il rovescio della medaglia era che i cantoni si trovavano sovente in lite tra loro, anche perché per ragioni linguistiche i cantoni erano influenzati da poteri vicini: i cantoni di lingua francese dalla Francia, quelli di lingua tedesca dall’Austria, quelli di lingua italiana da Milano e da altri Stati italiani. Queste dispute culturali e politiche spesso degeneravano in scontri militari.
Dobbiamo anche considerare che l’epoca di San Nicola della Flue è chiamata in Svizzera l’epoca militare. È in quel tempo che gli Svizzeri si rivelano grandi soldati e offrono truppe e guarnigioni a tutta l’Europa. Le guardie svizzere che ancora oggi servono il Papa sono il ricordo vivo di quella tradizione. È in questo scenario che anche San Nicola è chiamato alle armi, e partecipa alla guerra contro il cantone di Zurigo che si era ribellato alla Confederazione. Con il suo eroico comportamento San Nicola rende testimonianza alla dignità della vita militare.
SECONDO, immaginiamo quell’uomo valoroso sul campo di battaglia, con la spada in una mano e il Rosario nell’altra. È una bellissima scena di battaglia! Oggi colleghiamo immediatamente gli oggetti di pietà come il Rosario a qualche cosa di sentimentale. Chi collegherebbe oggi il Rosario a un guerriero? Al contrario per molti il Rosario è una cosa da vecchiette o da uomini imbelli e incapaci di combattere. Non è colpa del Rosario, che anzi subisce così una grave ingiustizia, ma di un sentimentalismo religioso che ha sovvertito il vero significato della preghiera cristiana.
TERZO, è interessante meditare sull’atteggiamento di San Nicola quando rifiuta la carica di sindaco. Afferma: “No, sono di condizione umile e avrei difficoltà a esercitare la mia autorità su persone che per nascita sono in una posizione più elevata”. Questa affermazione è incomprensibile oggi. Ma denota l’amore di San Nicola per le gerarchie: la sua comprensione del fatto che le gerarchie – certo diverse secondo i tempi e i luoghi – sono elemento essenziale di una società bene ordinata. Oggi vediamo piuttosto il contrario: a causa dell’egualitarismo che ci ha invaso talora si ritiene che una persona di condizione sociale più elevata non sia adatta a governare. Spesso alcuni governanti sono criticati perché sono di nascita nobile o di condizione sociale più alta della maggioranza dei governati. E spesso queste critiche vengono dall’invidia e dal rifiuto della nozione stessa di gerarchia, senza la quale però le società non possono sopravvivere.
QUARTO: nel mezzo della sua vita di laico San Nicola ha sempre avuto delle visioni. Consideriamo un pastore, un soldato e un giudice che, mentre si dedica alle occupazioni tipiche di queste posizioni, riceve delle visioni dal Cielo. Immaginiamo la scena del giudice Nicola della Flue mentre presiede il tribunale cantonale e ascolta le parti e gli avvocati. Mentre segue un’arringa, all’improvviso ci si accorge che il giudice ha uno sguardo lontano: è in estasi. Il suo volto è luminoso, contempla una scena paradisiaca. Si è distratto? Forse sì, ma le testimonianze attestano che quando la visione svanisce Nicola pronuncia parole di grande saggezza. Spesso le parti si riconciliano e il caso è risolto. Certo ai giorni nostri è difficile incontrare giudici di questo genere.
Possiamo anche immaginare il giovane Nicola pastore in un tipico paesaggio svizzero. Sullo sfondo le famose Alpi svizzere, coperte di una neve che al tramonto si vena di colori delicati, dal rosa all’azzurro. San Nicola suona il suo corno per radunare il gregge, ma si ferma a pregare prima di tornare alle stalle. In questo momento il Cielo si apre e mostra al santo le meraviglie del Paradiso e degli angeli. Una vita racconta che una volta il santo si ferma a conversare con Dio e un angelo porta il gregge nelle stalle in vece sua. Gli angeli, lo splendore primigenio delle montagne svizzere e l’anima purissima di San Nicola della Flue si compongono perfettamente in un quadro di rara bellezza. Un quadro davvero superiore!
QUINTO, la visione del giglio che si reclina su se stesso ed è mangiato da un animale mostra come spesso la contemplazione è interrotta e, per così dire, guastata dalle preoccupazioni terrene. Dal momento che quando cerchiamo di meditare abbiamo tutti lo stesso problema, possiamo tutti prendere San Nicola della Flue come nostro santo patrono. Dobbiamo chiedergli di non disperdere le grazie della meditazione e di perseverare nei pensieri buoni. Ma è pure incoraggiante vedere che i santi hanno avuto i nostri stessi problemi.
SESTO, meditiamo sul grande fervore che nel corso dei secoli il popolo svizzero ha mostrato nel pellegrinaggio verso la tomba di San Nicola della Flue e la cura che ha dimostrato nel mantenere e nell’abbellire il suo santuario. Lì possiamo vedere le sue decorazioni militari, e – cosa curiosa – anche quelle che i suoi discendenti diretti hanno conquistato sui campi di battaglia del mondo e donato al santuario. Con questa eccellente tradizione di famiglia, che è durata fino a non molti anni fa, i della Flue dichiarano che per loro è più glorioso discendere da un santo che mostrare le decorazioni che si sono guadagnate. È un gesto carico di significato.
Questi sono i punti della nostra meditazione ammirata su San Nicola della Flue. Anche se non siamo soldati, dobbiamo chiedergli la grazia di saperci sempre battere – nelle difficili battaglie, non necessariamente militari, in cui siamo impegnati oggi – con la spada in una mano e il Rosario nell’altra.
Autore: Plinio Corrêa de Oliveira Fonte: www.cescor.org Note: Traduzione di Massimo Introvigne
Morta a Roma nell’anno 384
La vita di questa santa ci è nota solo attraverso gli scritti di san Girolamo, che ne parla in una lettera alla gentildonna Marcella, animatrice di una comunità femminile di tipo quasi monastico nella sua residenza sull'Aventino. Anche Lea è di famiglia nobile: rimasta vedova in giovane età, pareva che dovesse poi sposare un personaggio illustre, Vezzio Agorio Pretestato, chiamato ad assumere la dignità di console. Ma lei è entrata invece nella comunità di Marcella, dove si studiano le Scritture e si prega insieme, vivendo in castità e povertà. Con questa scelta, Lea capovolge modi e ritmi della sua vita. Marcella ha in lei una fiducia totale: tant'è che le affida il compito di formare le giovani nella vita di fede e nella pratica della carità nascosta e silenziosa. Quando Girolamo ne parla, nel 384, Lea è già morta. (Avvenire)
Etimologia: Lea = leonessa, dal latino
Martirologio Romano: Commemorazione di santa Lea, vedova romana, le cui virtù e la cui morte ricevettero la lode di san Girolamo.
Nella seconda metà del IV secolo i cristiani di Roma sono ormai molto numerosi. Ma con qualcuno di troppo. Infatti, in mezzo ai credenti veri s’infiltrano pure i ceffi untuosi e avidi dei voltagabbana di sempre, inquinatori della Chiesa. "Con questi qui d’attorno, essere santi diventa rischioso". Così si sfoga san Girolamo (ca. 347 - 420) che, da buon dàlmata focoso, qualche volta esagera. Ma qui parla di cose toccate con mano durante il suo soggiorno nell’Urbe, a contatto con quei gruppi cristiani che al pericolo di contagio spirituale oppongono la loro fede, approfondita con lo studio e “predicata” con l’esempio. Questo è il tempo di Roma sostituita da Milano come capitale effettiva, e ben poco frequentata dagli imperatori, sempre in guerra ai confini: nel 375 la morte coglie Valentiniano I durante una campagna in Pannonia (Ungheria); e il suo successore Valente muore nel 378 combattendo i Visigoti ad Adrianopoli (oggi Edirne, Turchia europea).
In questi tempi vive Lea, che conosciamo soltanto grazie a san Girolamo. Egli ne parla in una lettera alla gentil donna Marcella, animatrice del cristianesimo integralmente vissuto, che ha dato vita a una comunità femminile di tipo quasi monastico nella sua residenza sull’Aventino. Anche Lea è di famiglia nobile: rimasta vedova in giovane età, pareva che dovesse poi sposare un personaggio illustre, Vezzio Agorio Pretestato, chiamato ad assumere la dignità di console.
Ma lei è entrata invece nella comunità di Marcella, dove si studiano le Scritture e si prega insieme, vivendo in castità e povertà. Con questa scelta, Lea capovolge modi e ritmi della sua vita per diffondere, come diremmo noi, un “messaggio forte”. E Girolamo dice di lei: "Maestra di perfezione alle altre, più con l’esempio che con la parola, fu di un’umiltà così sincera e profonda che, dopo essere stata gran dama con molta servitù ai suoi ordini, si considerò poi come una serva".
Marcella ha in lei una fiducia totale: tant’è che le affida il compito di formare le giovani nella vita di fede e nella pratica della carità nascosta e silenziosa. Sarebbe difficile, scrive Girolamo, riconoscere in lei l’aristocratica di un tempo, ora che "ha mutato le vesti delicate nel ruvido sacco", e mangia come mangiano i poveri che soccorre.
Questo è il suo stile, sotto il segno del riserbo. Agire e tacere. Insegnare con i fatti. Fa così poco rumore che di lei non si sa altro, e ignoreremmo perfino la sua esistenza se Girolamo non l’avesse ricordata in quella lettera, quando lei era già morta (e sepolta a Ostia). Era il 384, anno della morte di papa Damaso I, regnando in concordia gli imperatori Teodosio I e Massimo. Più tardi il primo dei due sconfisse il secondo. E regnò poi da solo, avendolo fatto uccidere.
Autore: Domenico Agasso Fonte: Famiglia Cristiana
726 - 12 luglio 783
Tanto è celebre il figlio, tanto è caduta nell’oblio della storia la madre. Trattasi della Beata Bertrada (o Berta) di Laon, madre dell’imperatore San Carlo Magno. Nata nel 726, sposa dunque di Pipino il Breve, fu regina dei Franchi. Morì il 12 luglio 783 e venne inumata a Saint-Denis, ove la sua tomba, fatta restaurare dal re francese San Luigi IX, porta come unica iscrizione “Berta, mater Caroli Magni”. Gli storici dicono che il grande imperatore nutrisse nei confronti di sua madre una tenerezza rispettosa e che ascoltassi i suoi consigli con una certa deferenza. Nulla di certo sappiamo circa le esatte origini di Bertrada: secondo alcuni era figlia di Cariberto, conte di Laon, mentre altri la riterrebbero addirittura figlia di un imperatore di Costantinopoli. E’ però risaputo come i re franchi si preoccupassero poco delle origini più o meno illustri delle loro spose e nessuno si è mai occupato di scoprire verosimilmente donde venisse la regina Berta, visto che anche l’antica poesia eroica e varie leggende tralasciarono la questione. Il suo culto quale “beata” ha carattere prettamente locale. Talvolta è nota come “Berta La Pia”. E’ considerata patrona delle filatrici. La sua festa ricorre al 24 marzo.
Autore: Fabio Arduino
1331 - 24 marzo 1381
L'etimologia del nome «Caterina» attinge al greco «donna pura». Tale fu Catarina Ulfsdotter, meglio conosciuta come Caterina di Svezia, secondogenita degli otto figli di santa Brigida, la grande mistica svedese che ha segnato profondamente la storia, la vita e la letteratura del Paese scandinavo. Nata nel 1331, in giovanissima età Caterina sposò Edgarvon Kyren, nobile di discendenza ma soprattutto d'animo: questi non solo acconsentì al desiderio della ragazza di osservare il voto di continenza, ma si legò addirittura allo stesso voto. A 19 anni Caterina raggiunse la madre a Roma, dove partecipò alla sua intensa vita religiosa e ai suoi pellegrinaggi. Alla morte di Brigida, Caterina ne riportò in patria la salma e, nel 1375, entrò nel monastero di Vadstena. Nel 1380 venne eletta badessa; morì il 24 marzo 1381. (Avvenire)
Etimologia: Caterina = donna pura, dal greco
Martirologio Romano: A Vadstena in Svezia, santa Caterina, vergine: figlia di santa Brigida, data alle nozze contro il suo volere, conservò, di comune accordo con il marito, la sua verginità e, dopo la morte di lui, condusse una vita pia; pellegrina a Roma e in Terra Santa, trasferì le reliquie della madre in Svezia e le ripose nel monastero di Vadstena, dove ella stessa vestì l’abito monacale.
Catarina Ulfsdotter, meglio conosciuta col nome di Caterina di Svezia, era la secondogenita degli otto figli di S. Brigida, la grande mistica svedese che molta influenza ebbe nella storia, nella vita e nella letteratura del suo Paese, assai più della regale compatriota Cristina, che riempì delle sue stranezze le cronache mondane della Roma rinascimentale. Anche Brigida e la figlia Caterina legarono il loro nome alla città di Roma, ma con ben altri meriti.
Caterina, nata nel 1331, in giovanissima età si era maritata con Edgarvon Kyren, nobile di discendenza e soprattutto di sentimenti, poiché acconsentì al desiderio della giovane e graziosa consorte di osservare il voto di continenza, anzi, con commovente emulazione nella pratica della cristiana virtù della castità, si legò egli stesso a questo voto. Caterina, non certo per rendere più agevole l'osservanza del voto, all'età di diciannove anni raggiunse la madre a Roma, in occasione della celebrazione dell'Anno santo. Qui la giovane apprese la notizia della morte del marito.
Da questo momento la vita delle due straordinarie sante scorre sullo stesso binario: la figlia partecipa con totale dedizione all'intensa attività religiosa di S. Brigida. Questa aveva creato in Svezia una comunità di tipo cenobitico, nella cittadina di Vadstena, per accogliervi in separati conventi di clausura uomini e donne sotto una regola di vita religiosa ispirata al modello del mistico S. Bernardo di Chiaravalle. Durante il periodo romano che si protrasse fino alla morte di S. Brigida, il 23 luglio 1373, Caterina fu costantemente accanto alla madre, nei lunghi pellegrinaggi intrapresi, spesso tra gravi pericoli, dai quali le due sante non sarebbero uscite indenni senza un intervento soprannaturale.
S. Caterina viene spesso rappresentata accanto a un cervo, che, secondo la leggenda, più volte sarebbe comparso misteriosamente per trarla in salvo. Riportata in patria la salma della madre, nel 1375 Caterina entrò nel monastero di Vadstena, di cui venne eletta badessa, nel 1380.
Era rientrata allora da Roma da un secondo soggiorno di cinque anni, per seguire da vicino il processo di beatificazione della madre, che si concluse positivamente nel 1391.
A Roma, narra una tradizione leggendaria, Caterina avrebbe prodigiosamente salvato la città dalla piena del Tevere, che aveva già abbattuto gli argini.
L'episodio è raffigurato in un dipinto conservato nella cappella a lei dedicata nell'abitazione di piazza Farnese. Papa Innocenzo VIII ne permise la solenne traslazione delle reliquie; ma sarà l'unanime e universale devozione popolare a decretarle il titolo di santa e a festeggiarla nel giorno anniversario della morte, avvenuta il 24 marzo 1381.
Autore: Piero Bargellini
Etimologia: Isacco = Dio gli sorride, salvezza di Dio, dall'ebraico
Figlio di Abramo e Sara, padre di Esaú e Giacobbe. Visse piú a lungo di Abramo, meno nomade di lui, meno ricco di figli, meno favorito di visioni soprannaturali, per quello almeno che il Genesi narra di lui.
Erede delle divine promesse, rinnovategli da Iahweh dopo la morte di Abramo, intensamente devoto, sembra il tipo dell'umile che, nel nascondimento, si rimette sempre fiducioso alla volontà di Dio.
Sara nonagenaria dà alla luce Isacco, così chiamato per il riso di meraviglia e di gioia di Abramo, quando un anno prima gliene fu promessa e annunziata la nascita. Il figlio della promessa fu cosi anche il figlio del miracolo. Alcuni moderni hanno pensato che Isacco fosse un nome teoforico con l'apocope del finale el=Dio sorrida, cioè "sia favorevole". Senza recriminazioni, mansueto ed ossequiente, il giovane Isacco si lascia legare e porre sull'ara per essere immolato a Dio, nella prova rifulse la santità di Abramo e la profonda pietà del figliolo Gen. 22).
Isacco sentì fortemente la perdita di Sara, sua madre; ogni sera si recava nella solitudine della campagna per dare sfogo al suo dolore e meditare sui disegni della Provvidenza divina a rassegnazione del suo animo affranto. E in tale atteggiamento avvenne il suo incontro con Rebecca, che il vecchio Eliezer portava con sé dalla Mesopotamia. Isacco l'amò teneramente e la prese quale sua unica sposa. Aveva allora quarant'anni, ma Rebecca era sterile. Compreso della missione affidatagli dalla Provvidenza divina, non secondo nella fede al padre suo che morendo, lo lasciava erede legittimo della benedizione messianica, Isacco non dubitò dell'avvenire: "fece preghiere al Signore per avere il dono della posterità desiderata, e il Signore lo esaudì e fece che Rebecca concepisse". E Rebecca diede alla luce due gemelli: Esaù e Giacobbe, che sarà, per divina elezione, l'erede delle promesse. Alla nascita dei due gemelli, Isacco aveva sessant'anni. A centotrenta anni, avendo perduto la vista e credendo vicina la morte, Isacco volle benedire il suo primogenito Esaù; ma il furbo gemello, aiutato dalla madre carpì al vecchio genitore la benedizione speciale che gli attribuiva i diritti di primogenitura. Isacco anche qui, nelle circostanze che avevano favorito Giacobbe, vide il volere dell'Eterno e non ritrattò la sua benedizione.
Morì ad Hebron a centottanta anni c fu sepolto da Esaù e Giacobbe nella tomba di famiglia, nella grotta di Macpelah, dove egli aveva piamente tumulato Sara ed Abramo. Il suo ricordo è vivo nel V.T.; s. Paolo ricorda l'elezione divina di Isacco ad unico erede delle divine promesse, con l'esclusione di Ismaele e degli altri figli di Abramo, per dimostrare come eredi e partecipi della salvezza messianica non sono tutti i discendenti carnali di Israele, ma l'Israele di Dio, gli imitatori della fede di Abramo.
La Chiesa ha onorato Isacco come figura o tipo di Gesù, non in una sola azione, come nella maggior parte degli altri tipi, ma in tutta la sua vita: nel preannunzio della nascita, fatto dagli angeli ad Abramo, nella nascita, nelle vicende della sua vita particolarmente nella sua volontaria immolazione, quando si lasciò trattare quale vittima innocente, portando sulle sue spalle le stesse legna necessarie per l'olocausto (s. Ambrogio).
Il Cristo viene denominato "un secondo Isacco". La stessa Rebecca viene considerata figura della Chiesa, scelta per divenire la sposa di Cristo. L'incontro di Eliezer con Rebecca prefigura l'Annunciazione e il matrimonio di Rebecca con Isacco viene considerato figura del matrimonio della Vergine con s. Giuseppe.
In quella che i latini chiamano terza domenica d'Avvento, i greci celebrano la memoria dei santi "Propatri del Salvatore", e principalmente dei tre più illustri, cioè Abramo, Isacco e Giacobbe, cui accenna il Menologio di Basilio al 16 dicembre. La loro solennità è posta dai Siri nella feria III dopo Pasqua; dagli Armeni, nel sabato della prima settimana dopo la Trasfigurazione e al 28 mesore (21 agosto.) dai copti.
La Chiesa latina ha posto, dopo il sec. IX, la sua memoria al 25 marzo in parecchi martirologi: immolatio Isaaci Patriarchae, ricordando anche gli altri patriarchi, in relazione con la passione del Cristo.
Autore: Francesco Spadafora
York, Inghilterra, 1550/1556 - Tyburn, York, 25 marzo 1586
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A York in Inghilterra, santa Margherita Clitherow, martire, che, con il consenso del coniuge, aderì alla fede cattolica, nella quale educò anche i figli e si adoperò per nascondere in casa i sacerdoti ricercati; per questo motivo fu più volte arrestata durante il regno di Elisabetta I e, rifiutandosi di trattare la sua causa davanti al tribunale per non gravare l’animo dei consiglieri del giudice con il fardello di una condanna a morte, fu schiacciata a morte per Cristo sotto un enorme peso.
La storia delle persecuzioni anticattoliche in Inghilterra, Scozia, Galles, parte dal 1535 e arriva al 1681; il primo a scatenarla fu come è noto il re Enrico VIII, che provocò lo scisma d’Inghilterra con il distacco della Chiesa Anglicana da Roma.
Artefici più o meno cruenti furono oltre Enrico VIII, i suoi successori Edoardo VI (1547-1553), la terribile Elisabetta I, la ‘regina vergine’ († 1603), Giacomo I Stuart, Carlo I, Oliviero Cromwell, Carlo II Stuart.
Morirono in 150 anni di persecuzioni, migliaia di cattolici inglesi appartenenti ad ogni ramo sociale, testimoniando il loro attaccamento alla fede cattolica e al papa e rifiutando i giuramenti di fedeltà al re, nuovo capo della religione di Stato.
Primi a morire come gloriosi martiri, il 4 maggio e il 15 giugno 1535, furono 19 monaci Certosini, impiccati nel tristemente famoso Tyburn di Londra, l’ultima vittima fu l’arcivescovo di Armagh e primate d’Irlanda Oliviero Plunkett, giustiziato a Londra l’11 luglio 1681.
L’odio dei vari nemici del cattolicesimo, dai re ai puritani, dagli avventurieri agli spregevoli ecclesiastici eretici e scismatici, ai calvinisti, portò ad inventare efferati sistemi di tortura e sofferenze per i cattolici arrestati.
In particolare per tutti quei sacerdoti e gesuiti, che dalla Francia e da Roma, arrivavano clandestinamente come missionari in Inghilterra per cercare di riconvertire gli scismatici, per lo più essi erano considerati traditori dello Stato, in quanto inglesi rifugiatosi all’estero e preparati in opportuni Seminari per il rientro.
Tranne rarissime eccezioni come i funzionari di alto rango (Tommaso Moro, Giovanni Fisher, Margherita Pole) decapitati o uccisi velocemente, tutti gli altri subirono prima della morte, indicibili sofferenze, con interrogatori estenuanti, carcere duro, torture raffinate come “l’eculeo”, la “figlia della Scavinger”, i “guanti di ferro” e dove alla fine li attendeva una morte orribile; infatti essi venivano tutti impiccati, ma qualche attimo prima del soffocamento venivano liberati dal cappio e ancora semicoscienti venivano sventrati.
Dopo di ciò con una bestialità che superava ogni limite umano, i loro corpi venivano squartati ed i poveri tronconi cosparsi di pece, erano appesi alle porte e nelle zone principali della città.
Solo nel 1850 con la restaurazione della Gerarchia Cattolica in Inghilterra e Galles, si poté affrontare la possibilità di una beatificazione dei martiri, perlomeno di quelli il cui martirio era comprovato, nonostante i due-tre secoli trascorsi.
Nel 1874 l’arcivescovo di Westminster inviò a Roma un elenco di 360 nomi con le prove per ognuno di loro.
A partire dal 1886 i martiri a gruppi più o meno numerosi, furono beatificati dai Sommi Pontefici, una quarantina sono stati anche canonizzati nel 1970.
Margherita Clitherow nacque a York tra il 1550 e il 1556 da Tommaso Middleton e crebbe educata al protestantesimo, ritenendo che questa fosse la vera fede in Cristo.
Contrasse il matrimonio nel 1571 con Giovanni Clitherow protestante, dopo circa tre anni turbata dalla essenza della dottrina protestante e dalla leggerezza dei suoi ministri, prese a studiare i principi cattolici e si convertì.
Il marito rimasto sempre un protestante, non si oppose lasciandola libera di educare anche i figli nella stessa fede cattolica. Si era al tempo della sanguinaria regina Elisabetta I (1533-1603) salita al trono nel 1558, che aveva ripristinato con mano energica l’anglicanesimo nel regno.
Margherita Clitherow nata Middleton, per la sua conversione, che non era passata inosservata, finì spesso nel mirino dei fedeli alla regina, il suo nome già nel 1576 compare nella lista dei prigionieri, accusata di “trascurare i suoi doveri verso Dio e la regina e di non voler partecipare al servizio divino nella chiesa protestante”.
Subì il carcere varie volte, anche per due anni e più, ma per lei la prigionia costituiva un periodo di riflessione e di una devota conversazione con Dio.
Quando era libera a casa, oltre che pregare con intensità insieme ai figli, provvedeva ad ospitare, di nascosto perché era proibito, i sacerdoti di passaggio in una stanza segreta, lieta di fare qualcosa per la Chiesa perseguitata di quel tremendo periodo. Approfittava della permanenza dei sacerdoti per confessarsi, ricevere i Sacramenti e ascoltare la S. Messa.
Dopo un periodo di libertà di diciotto mesi, il 10 marzo 1586 la sua casa fu perquisita da un drappello di sbirri; Margherita Clitherow fece appena in tempo a nascondere un sacerdote in un ripostiglio segreto sotto il pavimento, non trovando niente di compromettente gli sbirri presero a malmenare uno dei servi, un atterrito ragazzo di dieci anni, il quale alla fine indicò il nascondiglio.
Il sacerdote era già scappato, ma nel vano furono trovati abiti ecclesiastici e arredi sacri, pertanto Margherita fu arrestata e trascinata in prigione insieme ai figli e servi, questi ultimi dopo alcuni giorni furono liberati, mentre lei fu rinchiusa nel carcere oscuro del castello di York.
Fu sottoposta ad interrogatorio e processata dal tribunale con l’accusa di aver nascosto dei sacerdoti, anche se non si era trovato nessuno e di aver ascoltato la Messa come provavano gli arredi sequestrati, invitata a dichiararsi colpevole o innocente, Margherita eluse la domanda per tutte le udienze successive, dicendo: “Non ho commesso nulla di male per cui dichiararmi colpevole”.
Rifiutando così il verdetto di una giuria, secondo il pensiero di molti martiri dell’epoca, che così facendo non coinvolgevano i giurati nel pronunciare una sentenza, che data la legge vigente era di condanna a morte, lasciando la responsabilità di pronunciarsi al solo giudice.
La sentenza fu della pena capitale e ascoltatala Margherita disse: “Se questa sentenza è di condanna conforme alla vostra coscienza, prego Dio che ve ne riserbi una migliore dinanzi al suo tribunale”.
Il mattino del 25 marzo 1586, nei sotterranei della prigione fu spogliata dei suoi vestiti e dopo aver indossato un abito bianco da lei stessa preparato, fu stesa al suolo legata con le mani e i piedi a dei pioli; poi sotto la schiena fu posta una pietra aguzza e sul corpo una porta di legno sulla quale furono ammassati grossi pesi fino a schiacciarla mortalmente.
Il martirio durò in tutto una quindicina di minuti, poi il corpo della martire fu gettato in una fossa di acqua putrida e melmosa; per sei settimane i cattolici fecero ricerche del suo corpo, ritrovandolo alfine ancora incorrotto fresco e puro come il giorno della morte.
Dei tre figli, Agnese si fece suora a Lovanio e i due maschi divennero sacerdoti.
Margherita Clitherow fu beatificata il 15 dicembre 1929 da Pio XI e canonizzata da papa Paolo VI il 25 ottobre 1970 insieme a 40 martiri dell’epoca.
Autore: Antonio Borrelli
Etimologia: Pelagio = del mare, marino, dal latino
Emblema: Bastone pastorale
Teodoreto di Ciro, con la sua Storia Ecclesiastica è la fonte quasi unica che ci fornisca qualche informazione su questo personaggio.
Pelagio era originario della Siria, si sposò molto giovane, ma, nello stesso giorno delle nozze, ottenne dalla sposa il consenso ad una vita di perfetta castità. Di fronte all'esempio di virtú che essi offrìvano ai cristiani di Laodícea (oggi Lataquieli), in Siria, costoro lo scelsero, nel 360, quale vescovo della città ed egli ricevette dalle mani di Acacio di Cesarea di Palestina la consacrazione episcopale.
Nel 363 assistette al concilio di Antiochia, dove fu ardente difensore della fede nicena contro gli Ariani e firmò la professione di fede in cui era incluso il termine "consustanziale". Partecipò anche al sinodi Tiana (367). L'imperatore Valente, avendo aderito all'eresia ariana, privò i vescovi ortodossi delle loro sedi e Pelagio, compreso nel loro numero, venne esiliato in Arabia.
Nel 378, dopo la morte di Valente, salì al trono imperiale Graziano e Pelagio poté rientrare in possesso della sua carica aderendo al partito di Melezio di Antiochia; successivamente si schierò tra i vescovi favorevoli all'elezione in Costantinopoli di s. Gregorio di Nazianzo.
Nel 381, infine, lo ritroviamo al secondo concilio ecumenico di Costantinopoli. Si ignora la data della sua morte.
Non pare che la Chiesa bizantina abbia mai reso un culto particolare a Pelagio. Anche in Occidente, il santo vescovo è rimasto ignoto alle liste dei martirologi storici; si dovette attendere C. Baronio perché la sua memoria fosse introdotta nel Martirologio Romano alla data, arbitrariamente scelta, del 25 marzo.
Autore: Joseph-Marie Sauget Fonte: Enciclopedia dei Santi:
Kourim, Chotoun (Boemia), 975 ca. – Sázava (Boemia), 25 marzo 1053
Patronato: Repubblica Ceca
Martirologio Romano: A Sázava in Boemia, san Procopio, che, lasciati la moglie e il figlio, si dedicò alla vita eremitica, resse poi il monastero in questo luogo da lui stesso fondato e celebrò le lodi divine secondo il rito greco e in lingua slava.
E' uno dei santi Patroni della Boemia (attuale Repubblica Ceca), e la sua raffigurazione è abbondante nel Paese, specie nell’episodio leggendario, secondo cui s. Procopio riuscì a legare il demonio all’aratro, facendoglielo tirare.
Sulla sua esistenza sono state scritte ben otto ‘Vitae’, la prima delle quali è del 1061-67 e altre due sono in lingua boema, una in versi e una in prosa.
Purtroppo queste ‘Vitae’ scritte molti secoli fa, danno notizie differenti e a volte contrastanti, per forza di cose, bisogna riassumere e conglobare le varie notizie, che non si esclude possono essere anche in parte leggendarie.
Procopio nacque verso il 975, nel castello di Kourim vicino a Chotoun e ricevette la sua istruzione nelle lettere slave a Vysehard, che era il centro amministrativo ed ecclesiastico della Boemia, presso Praga e dove era attiva una famosa scuola della lingua slava.
Ciò è comprovato dal fatto che le lettere slave erano già state inventate dal santo vescovo Cirillo e approvate dalla Chiesa, tenendo conto che il Cristianesimo slavo influenzò la Boemia sin dagli anni 869-870, cioè dopo il battesimo del duca Borivoj ad opera di s. Metodio.
Aggiungiamo ancora che negli anni intorno alla sua nascita, quindi verso il 975, la Boemia apparteneva ecclesiasticamente parlando, alla diocesi di rito latino di Ratisbona e da quell’anno fu eretta la nuova diocesi latina di Praga; ma fino a questo evento i duchi boemi sostennero fermamente che si usasse la liturgia slava.
Le buone relazioni che intercorrevano fra Procopio e la famiglia ducale, indicano la sua nobile origine e che il nome greco Procopio giunse certamente in Boemia attraverso la liturgia slava.
Egli fu sacerdote secolare dalla vita onesta e casta, dedicata al servizio di Dio; dopo l’ordinazione fu ricevuto tra i canonici di Vysehard presso la chiesa di S. Clemente.
Secondo l’uso locale e come altri sacerdoti, Procopio era sposato ed aveva un figlio di nome Jimram (Emeramo) che in seguito sarà monaco nel suo monastero. Poi come succedeva spesso in quell’epoca, influenzata dal grande movimento benedettino, anche Procopio attratto dall’ascetismo dei benedettini, divenne monaco, quasi certamente nel monastero di Brevnov, uno dei due esistenti in quell’epoca in Boemia.
Ma dopo un breve tempo, Procopio chiese ai suoi superiori di dedicarsi ad una vita ancora più austera e con il loro permesso, si ritirò in solitudine in una grotta presso il fiume Sázava a circa due miglia dal natio castello di Kourim.
Era il 1009 circa; costruì una chiesetta dedicata alla Madonna e a San Giovanni Battista; dedito alla preghiera e alla meditazione, non trascurò la Regola benedettina “Ora et labora”, quindi prese a disboscare la foresta tutta intorno, per preparare un’area arabile.
E qui si inserisce la leggenda prima accennata, di aver costretto il diavolo tentatore, a tirare l’aratro per lui. Come per tanti santi eremiti, la solitudine attirò molti visitatori, ai quali parlava della fede, guariva i loro malanni con delle erbe; fu naturale che alcuni volessero compartecipare a quella vita di preghiera e penitenza, per cui diede inizio ad un piccolo villaggio di eremiti, l’attuale nome boemo della località, significa “le capanne nere” e ne ricorda probabilmente le origini.
Un giorno il duca Oldrich (Ulderico) inseguendo un cervo nella foresta, si smarrì ed incontrò Procopio; da tale incontro scaturì un rapporto di amicizia e di stima, per cui il duca favorì la costruzione di un monastero in muratura, che annoverò fra i suoi monaci, anche il figlio e il nipote di Procopio, Jimram e Vito.
Dopo la morte del munifico duca Oldrich, gli successe il figlio Bretislav allora duca di Moravia, il quale recatosi in visita al monastero e compiacendosi della vita di Procopio, decise di farlo eleggere abate, anche se lui non avrebbe voluto.
Il nuovo e primo abate di Sázava, volle che la Comunità seguisse la Regola di s. Benedetto, la liturgia del rito occidentale romano, la lingua liturgica slava. Sotto la sua guida, i monaci oltre ai lavori normali, si dedicavano ad opere letterarie e artistiche, allargando sempre più le relazioni con il mondo slavo.
Fu paterno con i suoi monaci oltre ogni dire, sollecitandoli con l’esempio e anche con le ammonizioni; durante il suo governo, non mancò loro mai nulla.
Procopio prese parte comunque alla vita ecclesiastica boema dei suoi tempi, era in buoni rapporti con il duca Bretislav e con il vescovo di Praga Sebér (Severo), il quale curò la sepoltura del santo abate di Sázava, quando morì il 25 marzo 1053.
I monaci lo venerarono subito come un santo, lo testimonia il culto resogli in Ungheria, paese che accolse fra il 1056 e il 1061, quindi pochi anni dopo la morte dell’abate, i monaci espulsi dal duca Spytihnev II; la sua “elevazione”, come allora era definita la proclamazione di un santo da parte di un vescovo, avvenne 40 anni dopo la sua morte nel 1093, ma in seguito non fu riconosciuta, forse perché operata solo dall’abate Bozetech.
Ad ogni modo, la canonizzazione ufficiale avvenne il 4 luglio 1204 ad opera di papa Innocenzo III; si racconta che il papa si affrettò a fare tale proclamazione, dopo che in sogno fu colpito in testa da Procopio con il pastorale degli abati.
La cerimonia fu officiata dal cardinale Guido di S. Maria in Trastevere, inviato come ‘legato’ a Sázava da parte del papa.
La festa religiosa per s. Procopio di Sázava si celebra il 4 luglio; egli è venerato come Patrono dei contadini e dei minatori e anche alcune fonti di acque salutari, presso il monastero, portano il suo nome.
Le sue reliquie, escluso un braccio riportato nel 1669 a Sázava, furono trasferite nel 1588 dal monastero a Praga, dove ancora si venerano nella Chiesa d’Ognissanti nel castello reale.
Il Martyrologium Romanum lo ricorda al 25 marzo.
Autore: Antonio Borrelli
Sirmio (Pannonia), † 304 ca.
Martirologio Romano: A Srijem in Pannonia, nell’odierna Croazia, santi martiri Montano, sacerdote, e Massima, coniugi, che, per aver professato la propria fede in Cristo Signore, furono precipitati in mare da alcuni infedeli.
Il Martirologio Romano celebra al 26 marzo i santi coniugi Montano e Massima, martiri di Sirmio in Pannonia (regione storica compresa fra l’Illiria, la Germania, la Dacia, che dal 9 d.C. divenne Provincia romana).
Le notizie riportate nei vari Martirologi (Siriano, di Floro, di Adone, Romano) non sono concordi sulla loro fine, ad ogni modo Montano era un sacerdote, che allora erano anche sposati, e Massima sua moglie, ed entrambi nel corso della persecuzione, indetta in tutto l’impero romano dall’imperatore Diocleziano (243-313), furono gettati nelle acque di un fiume a Sirmio (odierna Mitrovica) e fatti annegare.
Qualche Martirologio dice solo Montano, altri dicono insieme alla moglie, alcuni dicono che le acque nelle quali affogarono erano del mare. L’anno del martirio era il 304 ca.
Non si sa altro di questi coniugi, che si affiancano nella storia dei primi secoli della Chiesa, ad altre celebri coppie, come s. Aquila e Priscilla, s. Severiano e Aquila, s. Mario e Marta, ecc. delle quali molte martiri.
Montano deriva dal latino ‘Montanus’ e significa ‘montanaro’, con questo nome sono commemorati tre santi martiri al 24 febbraio, 26 marzo e 17 giugno.
Massima, forma femminile del latino ‘Maximus’, significa ‘grande’, con questo nome sono celebrate sette sante martiri al 16 maggio, 26 marzo, 8 aprile, 30 luglio, 2 settembre, 1° ottobre, 16 ottobre.
Autore: Antonio Borrelli
Un'altra intera famiglia, gli sposi con i figli martiri per la fede!
+ Illiria, II secolo
La “passio” di questi santi è giudicata dai Bollandisti nel loro Commento al Martirologio Romano “certe fabulosa”, cioè sicuramente favolosa. Fileto sarebbe stato un nobile senatore illirico, Lidia la sua sposa, Macedone e Teoprepio i loro figli. Arrestati semplicemente in quanto cristiani, l’imperatore Adrianò li affidò all’alto ufficiale Anfilochio affinché li sottoponesse ad atroci torture. Dinnanzi alla fortezza con cui l’intera famiglia sopportò diversi supplizi, Anfilochio dovette desistere ed addirittura si convertì al cristianesimo. Allo stesso modo anche l’ufficiale di guardia della prigione, Cronide, seguì il suo esempio. L’imperatore si adirò molto al giungere della notizia alle sue orecchie e li fece sottoporre tutti e sei a nuovi supplizi nella speranza di farli desistere. Morirono infine immersi in una vasca ricolma di olio bollente.
I sinasari bizantini ricordano questi gloriosi martiri al 27, 28 o 29 marzo, mentre il Martyrologium Romanum non li cita più nell'ultima edizione. Fileto e Lidia, i cui nomi non sono purtroppo molto conosciuti, non sono che una della moltissime coppie di sposi venerati come santi nella storia della cristianità, addirittura un’intera famiglia martirizzata in odio alla sua fede in Cristo, come nel XX secolo in Polonia la famiglia Ulma, per la quale è in corso il processo di canonizzazione: validi modelli dunque in un’epoca in cui il valore della famiglia è messo a repentaglio da iniziative discutibili dal punto di vista cristiano.
Autore: Fabio Arduino
Castello di La Roche, Francia, 14 aprile 1331 - Tours, Francia, 28 marzo 1414
Etimologia: Giovanna = il Signore è benefico, dono del Signore, dall'ebraico
Martirologio Romano: A Tours in Francia, beata Giovanna Maria de Maillé, che, dopo aver perso il marito in guerra, ridotta in povertà e scacciata di casa dai suoi, abbandonata da tutti, visse quasi reclusa in una piccola cella presso il convento dei Minori, mendicando il pane, ma piena di fiducia nel Signore.
Sposa controvoglia a 16 anni, vedova a poco più di 30, cacciata di casa e rifiutata dai parenti del marito, per i restanti 50 anni della sua vita costretta a vivere senza fissa dimora: così tante disavventure sono concentrate nella vita della Beata Giovanna Maria de Maillè, nata fortunata, ricca e coccolata nel castello di La Roche, nei pressi di Saint-Quentin de Touraine. il 14 aprile 1331. Nel panorama generalmente religioso e devozionale della famiglia spicca particolarmente lei, che cresce con l’accompagnamento spirituale di un francescano, dimostrando una particolare devozione mariana, tanto che al castello si sussurra di vere o presunte apparizioni della Madonna, di estasi, di preghiere prolungate, di precoci voti di verginità. Al compimento dei sedici anni si affaccia sulla scena della sua vita un parente da parte di mamma che diventa suo tutore, il che fa presumere che i genitori siano prematuramente morti. In questa veste combina, secondo l’uso del tempo, il matrimonio di Giovanna con il barone Roberto di Silly, un bravo ragazzo, poco più grande di lei, suo compagno di giochi fin da bambino. E tutto questo malgrado sia a conoscenza dell’inclinazione di Giovanna per la vita religiosa e del suo voto di verginità: un matrimonio forzato, dunque. Destino vuole che il tutore muoia improvvisamente proprio la mattina del giorno delle nozze e l’impressione sullo sposo è tale che propone a Giovanna di vivere in perfetta continenza, cioè come fratello e sorella. Ovvio il di lei consenso, a ciò già predisposta dal suo precoce voto di verginità. Malgrado le premesse il matrimonio funziona, e anche bene: come base hanno messo il vangelo, da vivere in tutta la sua integralità, e lo traducono in tante opere di bene, che allora come oggi non mancano: “adottano” alcuni bimbi abbandonati, sfamano e curano i poveri, assistono gli appestati, insomma si danno un sacco da fare. Mai si è visto tanto movimento nel loro castello, da quando si è sparsa la voce che i due sposi tanto ricchi sono anche tanto caritatevoli. E pensare che i problemi anche a loro non mancano, come quando Roberto va in guerra (siamo all’epoca della guerra dei Cent’anni), resta ferito e viene imprigionato dagli Inglesi. Per liberarlo Giovanna deve pagare un forte riscatto che intacca pesantemente il loro patrimonio. Eppure non perdono né slancio né fede e, una volta sistemate le cose, marito e moglie sono ancora fianco a fianco, prima per curare i contagiati dalla peste nera e poi i lebbrosi. Roberto muore nel 1362 e Giovanna, vedova poco più che trentenne, si trova contro gli suoceri e tutto il casato di suo marito. L’accusano principalmente di aver sprecato il patrimonio di famiglia e la cacciano senza tanti complimenti. Si trova così senza una casa, senza uno spicciolo, costretta a vivere di carità ma perfino per strada i ricchi parenti continuano a perseguitarla, e mandano i servi a lanciare insulti al suo passaggio, perché loro non vogliono abbassarsi al punto da farlo personalmente. Giovanna soffre e trangugia, con una carità senza limiti che non le lascia neppure un’incrostazione di risentimento. E per sapere dove trova tanta forza e tanta bontà, basta vedere le sue lunghe ore di preghiera, la sua tanta penitenza, i suoi sacrifici. Per vestito si è scelta una tunica grossolana e ruvida, tanto simile al saio dei suoi amati Francescani, di cui vive intensamente la spiritualità fino al giorno in cui diventerà terziaria. Continua a far carità ad ammalati, prigionieri, condannati a morte: se non più con i soldi, che non ha, sicuramente con la sua persona e i suoi umili servizi, consolandoli quando non può far di meglio, intercedendo per la loro liberazione quando la sua popolarità ha raggiunto l’apice e può spenderla a loro vantaggio. Perché la sua fama di donna di Dio si è estesa da Tours a gran parte della Francia. sono in molti a consultarla per avere consigli e suggerimenti e tra quelli che si mettono in fila alla sua porta ci sono anche alcuni di quelli che l’avevano a suo tempo insultata, che lei accoglie come gli altri, con carità e pazienza infinite. Malgrado la salute malandata e i disagi della sua vita di senzatetto, arriva fino alla soglia degli 82 anni e muore il 28 marzo 1414, circondata da una solida fama di santità che fa concludere in appena dodici mesi il processo diocesano informativo per la sua canonizzazione. Ma anche dopo morte Giovanna deve attendere, e fino al 1871, quando Pio IX la proclama beata.
Autore: Gianpiero Pettiti
La sua vita attraversa uno dei peggiori momenti della storia francese ed europea, dalla guerra franco-inglese dei Cent’anni alla grande peste di metà secolo, alla rivolta popolare di Parigi e all’insurrezione contadina (Jacquerie) nel Nord della Francia.
Giovanna Maria è di casato nobile. Nasce in un castello della regione di Tours e riceve l’istruzione religiosa da un francescano, confessore della famiglia. Deve però aver perduto presto i genitori, perché a sedici anni la troviamo già maritata (da un tutore, contro la sua volontà) al nobile Roberto de Sillé (o Silly): un matrimonio combinato per interesse sulla testa dei due sposi, i quali decidono di convivere in castità.
Il marito poi va in guerra, e nella sanguinosa battaglia di Crécy viene ferito e fatto prigioniero dai vincitori inglesi. Giovanna Maria riesce a farlo liberare secondo l’uso del tempo, ossia pagando un riscatto, che intacca gravemente il loro patrimonio. Al tempo della peste nera, poi, marito e moglie assistono i malati e soccorrono le famiglie in miseria, spendendo ancora i loro beni. Cessata l’epidemia, si dedicano ai lebbrosi. E quando nel 1362 Roberto muore, i suoi parenti scacciano Giovanna Maria, con l’accusa di avere sperperato il patrimonio di famiglia.
Lei si va a stabilire a Tours, nell’ospizio cittadino, dove assiste i malati e vive come una religiosa: ha fatto voto di castità perpetua nelle mani dell’arcivescovo locale. Ma incontra nuove ostilità e diffidenze e cerca allora di trovare pace dedicandosi alla vita eremitica, in solitudine. Una soluzione ideale per lei, se non fosse per la salute molto fragile: nel 1386, infatti, eccola di ritorno a Tours. Qui va a stabilirsi vicino al convento dei Francescani (che il popolo chiama abitualmente Cordiglieri) e prende come direttore spirituale uno di loro, padre Martin de Bois-Gaultier. Forse si fa anche terziaria, ma la cosa non è sicura.
Intraprende comunque una vita quasi da reclusa, che durerà ventisette anni. In città nessuno la vede, ma sono sempre più numerosi quelli che la vanno a cercare. E’ sorprendente l’autorevolezza di questa donna, che un po’ tutti si erano divertiti a umiliare: dal tutore ai suoceri, ai maldicenti di Tours. Ora, invece, la gente accorre a chiederle consiglio. Anche per liberare prigionieri o per salvare un condannato a morte si ricorre a lei: vada, corra a corte, convinca lei alla clemenza il re Carlo VI, che è pure malato di mente...
La sua fama di santità è così diffusa, che a un anno appena dalla morte (1414) il procedimento per canonizzarla è già concluso in diocesi, e i fedeli la venerano spontaneamente. Ma per le vicende della Chiesa prima e della Francia poi, si arriverà alla sua beatificazione con grande ritardo: solo nel 1871, per opera di papa Pio IX.
Autore: Domenico Agasso Fonte: Famiglia Cristiana
525 - Chalon-sur-Saone, 28 marzo 592
Gontrano era un re francese del VI secolo. Figlio di Clotario I, era nato intorno al 525. Morto il padre, ereditò parte del suo regno (spartito con due fratelli), comprendente Borgogna, Marsiglia e Arles. Governò con saggezza (e anche con il pugno di ferro), soffocando le pretese dei nobili. Fu munifico con la Chiesa, ricoprendo di doni comunità e monasteri. Visse in semplicità e morì nel 592 nella sua residenza di Chalon-sur-Saone. (Avvenire)
Emblema: Corona, Scettro
Martirologio Romano: A Châlon-sur-Saône in Burgundia in Francia, deposizione di san Guntramno, re dei Franchi, che distribuì i suoi tesori alle chiese e ai poveri.
Figlio di Clotario I, nato nel 525, Gontranno divise coi suoi fratelli il regno paterno. Egli ebbe il regno di Orléans e di Borgogna, il Berry e una parte della Provenza. Questo nipote di Clodoveo e di s. Clotilde era per natura furbo, violento, amante del piacere e della buona tavola. La sua vita sarebbe poco edificante se non avesse manifestato una fede solida, un sincero pentimento delle sue colpe e se non avesse compiuto molte buone azioni che dimostravano in lui la volontà di praticare le virtù della giustizia e della religione. Si sposò tre volte con ancelle, ma non ebbe figli.
Questo personaggio fu nondimeno assai presto venerato come un santo, perché, in tutta la sua vita mostrò una reale volontà di mettere la propria condotta in accordo con la sua fede e questo rude figlio di barbari che si civilizza diventando cristiano, fu in qualche modo un simbolo della forza e dell'opera della grazia. Gontranno si tenne fuori dalle lotte e dalle questioni che divisero continuamente i suoi fratelli e i suoi nipoti e intervenne solo come moderatore. Verso il 567-70 scelse come capitale del suo regno Chalon-sur-Saòne e si preoccupò dell'evangelizzazione dei suoi territori, in particolare delle montagne del Giura. Fondò nei sobborghi della sua capitale l'abbazia dei SS. Pietro e Paolo divenuta poi S. Marcello. Inviò religiosi di S. Benigno di Digione a fondare case a Pontarlier e a Salins, poi ne inviò altri nell'abbazia di Agauno (St-Maurice-en-Valais). In questo stesso periodo (570-575) accolse s. Colombano ad Annegray prima di donargli Luxeuil, una ventina di anni dopo. A Gontranno si attribuisce anche la fondazione del monastero di Baume-les-Dames e dì altre abbazie, e si dice che dotasse anche generosamente quelle che esistevano qua e là nel suo regno: S. Sinforiano di Autun, S. Benigno di Digione, Cestre, N. D. di Sales a Bourges e S. Maurizio di Agauno, che ricostruì, senza contare i monasteri di Chalon e di Macon, S. Marcello e S. Clemente. Fece inoltre donazioni ad Agauno e S. Benigno, perché vi si potesse celebrare la salmodia perpetua, anzi, sembra che volesse porre alle dipendenze di Agauno un certo numero di monasteri. Fece costruire la chiesa di S. Pietro a Ginevra; a Moriana fondò una chiesa nel 565 per conservarvi reliquie di s. Giovanni Battista, portate da Alessandria e vi istituì poi un seggio episcopale che esiste ancor oggi. Gontranno fu anche il protettore dei vescovi e si mostrò sempre molto reverente nei loro confronti; sottopose a un concilio le divergenze che egli aveva avuto con alcuni vescovi e con suo fratello Sigeberto; volle anche riparare alle violenze commesse da Chilperìco a detrimento delle chiese e dei poveri. Convocò sei concili in circa venti anni nelle principali città del suo stato: Lione, Chalon, Macon, Valence e si mostrò rispettoso dei canoni per le nomine episcopali e il diritto d'asilo. Ebbe sempre cura del suo popolo e volle sollevare le miserie dovute ai flagelli naturali e al tempo stesso, nella penitenza e nel digiuno, offriva se stesso a Dio come vittima per i suoi sudditi, secondo quanto riferiscono i cronisti.
Morì il 28 marzo 592 e fu sepolto a S. Marcello di Chalon, dove si credette per molto tempo che si fosse fatto monaco. La sua pietà e generosità hanno fatto sì che, a partire dal sec. VII, fosse considerato come un santo. Il suo nome figura in qualche ms. del Martirologio Geronimiano. Il suo corpo restò a Chalon ed il culto si sviluppò dopo che, nel 1435, Giovanni Rolin, vescovo di Chalon e priore di S. Marcello, ebbe restaurato la sua tomba. La Chiesa di Chalon ne ha celebrato la festa, come le diocesi di Moriana, Orléans, Besancon e Losanna; oggi figura nel Proprio di molte diocesi francesi. Nel sec. XVI gli Ugonotti devastarono la sua tomba e dispersero le reliquie; solo il capo fu salvato ed è conservato in un reliquiario d'argento. A Moriana è stato anche conservato un braccio, da epoca imprecisata fino al 1793. Il Martirologio Romano, dopo il Martirologio Geronimiano, celebra la sua memoria il 28 marzo.
Autore: Claude Boillon Fonte: Enciclopedia dei Santi
Angers, Francia, 8 febbraio 1751 – 28 marzo 1794
Renée-Marie Feillatreau (épouse Dumont), laica coniugata della diocese di Angers, morì nel tragico contesto della Rivoluzione Francese. E’ stata beatificata da Papa Giovanni Paolo II il 19 febbraio 1984.
Martirologio Romano: Ad Angers in Francia, beata Renata Maria Feillatreau, martire, che, sposata, durante la rivoluzione francese, morì ghigliottinata per la sua fedeltà alla Chiesa cattolica.
Oggi una coppia di sposi che sembra sia stata convertiti dal figlio Cadoc (anche lui Santo).
La vita di questa regina gallese degli inizi del VI sec., ci è nota attraverso quella di suo marito, s. Gwynllyw scritta ca. nel 1130 e una Vita dell'XI ic. del suo grande figlio s. Cadoc.
Gwlady era la maggiore delle ventiquattro figlie di s. Brychan di Brecknock e fu data in sposa (secondo la Vita Gunlei) al regulus del Galles sud-orientale di nome Gwynllyw: secondo la Vita Cadoci ella fu rapita da questi, aiutato nell'impresa da re Arthur.
Sempre la Vita Cadoci, in contrasto con la Vita Gunlei, descrive i primi anni del matrimonio di Gwlady come ben lungi dall'essere esemplari; tuttavia sembra che il figlio Cadoc li persuadesse ad emendarsi. Gwynllyw si ritirò nel luogo che si chiama oggi Stow Hill (Newport) dove esiste un'antica chiesa dedicata a s. Wooloo, mentre Gwlady scelse un luogo non molto lontano sulle sponde del fiume Ebbw.
Sebbene entrambi conducessero vita di penitenza, Cadoc li costrinse a separarsi piú completamente, cosí Gwlady si diresse verso una "solitudine montana" a Pencarnau nel Bassaleg dove costruì una chiesa in onore della Vergine.
La festa di Gwlady e di suo marito è fissata al 29 marzo ed i loro nomi sono ricordati in varie chiese e pozzi nel Galles meridionale; in particolare quello di Gwlady in un pozzo a Tredegar Park e in una chiesa nella diocesi di Llandaff (prima del 1146).
Autore: Leonard Boyle Fonte: Encoclopedia dei Santi
VI secolo
Essendo un santo gallese, i nomi che ricorrono in questa nota biografica, sono di conseguenza poco pronunciabili da noi latini.
S. Gwynllyw (in latino Gundleius, Guleius), visse nel secolo VI ed appartenne ad una famiglia di santi reali; era fratello di s. Petroc abate (4 giugno) e marito di santa Gladys (Gwladys) regina (29 marzo).
Gwynllyw era il primogenito del re (regulus) Glywys di Demezia, oggi Nonmouthshire, nel Galles sud-orientale, a cui succedette.
La sua vita ci è nota attraverso due fonti, una vita di s. Cadoc abate, suo figlio (21 settembre) e una non tanto attendibile vita di s. Gunlei, scritte rispettivamente nell’XI e XII secolo.
Sposò la maggiore delle 24 figlie di s. Brychan di Brecknock, Gladys, da cui ebbe una numerosa prole tra cui il già citato s. Cadoc e i santi Clammarch e Cynfyw.
Non ci addentriamo con questa scheda a cercare di capire, perché i Calendari gallesi, scozzesi, irlandesi, ecc, celebrano come santi, buona parte dei componenti delle famiglie reali dell’epoca, ascendenti e discendenti; ad ogni modo alcuni di essi, segnalati in questa scheda, sono riportati anche dall’attuale ‘Martirologio Romano’.
Gwynllyw, in gallese anche Winleus o Wooloo, fu un governante giusto, pacifico, gentile, secondo la ‘Vita Gunlei’; mentre secondo la ‘Vita di Cadoc’, egli fu un brigante e dissoluto.
Ad ogni modo, nella tarda vecchiaia fu convertito dal figlio Cadoc; da quel momento in poi la sua vita cambiò, e d’accordo con la sua santa moglie, presero a vivere una vita di austerità.
Gwynllyw abdicò al regno e si ritirò in un vecchio campo sulla Stow Hill (Newport), probabilmente su una collina del luogo; la moglie Gladys scelse un luogo non molto lontano sulle sponde del fiume Ebbw.
Sebbene ormai vivessero una vita di penitenza, il figlio s. Cadoc li convinse a distaccarsi più completamente, allora Gwynllyw si trasferì verso un eremitaggio montano a Pencarnau nel Bassaleg, dove costruì una chiesa in onore della Vergine.
E in questo luogo fu sepolto insieme alla moglie, dopo la loro morte e avendo ricevuto gli ultimi sacramenti da suo figlio Cadoc.
Varie cappelle furono erette in onore dei due santi coniugi eremiti, oggi distrutte; una statua raffigura il re nella torre di S. Wooloo nel Carmarthenshire.
I loro nomi sono ricordati in varie chiese e pozzi nel Galles meridionale. Il nome di s. Gwynllyw è invocato in due litanie medioevali e la sua festa celebrativa insieme alla moglie s. Gladys, è al 29 marzo.
Autore: Antonio Borrelli
Thonon, Savoia, 1° febbraio 1435 - Vercelli, 30 marzo 1472
Amedeo nasce da Anna di Lusignano e da Ludovico, duca di Savoia, il 1° febbraio 1435. Il suo matrimonio fu combinato per necessità politiche, infatti sposò Iolanda di Valois, figlia di Carlo VII di Francia. I due però si trovarono; avevano soprattutto in comune una fede profonda e sapevano condividere tutto, dalla preghiera al governo dello stato. Amedeo soffriva di epilessia e questo gli causò parecchie difficoltà. Pur essendo un propugnatore di una crociata per liberare Costantinopoli dai Turchi, fu fondamentalmente un pacifista, era anche molto generoso con i poveri che spesso erano suoi commensali. Edificò chiese e monasteri. Aggravandosi il suo male nel 1469 abdicò in favore di Iolanda, ma i suoi fratelli e i nobili lo assediarono al punto che per liberarlo dovette intervenire Luigi XI. Morì il 30 marzo 1472 a Vercelli.
Patronato: Valle Chisone
Etimologia: Amedeo = che ama Dio, dal latino
Emblema: Collare dell'Ordine Supremo della Santissima Annunziata
Martirologio Romano: A Vercelli, beato Amedeo IX, duca di Savoia, che, durante il proprio governo, favorì in ogni modo la pace e sostenne incessantemente con i mezzi materiali e con l’impegno personale le cause dei poveri, delle vedove e degli orfani.
Il 30 marzo si ricorda il dies natalis del Beato Amedeo IX, duca di Savoia e uomo di Dio. Nacque il 1° febbraio del 1435 nel castello di Thonon-les-Bains in Alta Savoia, sulle rive del lago di Ginevra. Sua madre era Anna di Lusingano e suo padre il duca Ludovico I di Savoia. Nel 1452 si sposò con Jolanda di Valois, figlia di re Carlo VII di Francia. Il loro fu un matrimonio combinato fin dalla più tenera età; eppure, nonostante le ragioni di Stato la loro unione fu formidabile e riuscitissima, cementata sulla fede in Cristo. Ad Amedeo IX venne assegnato il governatorato del Piemonte, con il disaccordo del fratello Filippo che lo avrebbe attaccato se Ludovico di Savoia non avesse arrestato il figlio.
Gli sposi andarono a vivere nel bresciano ed ebbero otto figli: Anna, Carlo (Principe di Piemonte), Filippo I , Bernardo, Carlo I, Giacomo Luigi (conte di Ginevra e di Gex), Maria (contessa di Neuchàtel), Ludovica (morta in concetto di santità), Gian Claudio.
Jolanda fu un’ottima consorte per Amedeo IX, infatti alleviò molto il marito nei compiti di governo, in quanto il duce soffriva di crisi epilettiche, una patologia che accettò sempre con grande rassegnazione, in quanto la considerava un mezzo per essere più vicino alle sofferenze di Cristo. Amedeo venne più volte attaccato dai suoi stessi parenti perché considerato inadatto al governo; ma la sua magnanimità e la sua benevolenza ebbero la meglio. Nel 1459, durante il Concilio di Mantova aperto da papa Pio II, Amedeo IX fu fautore di una crociata indetta per liberare Costantinopoli dai turchi e in difesa del Peloponneso. Per tale ragione, con grande determinazione e conscio di realizzare un’impresa votata alla causa religiosa, il duca reclutò uomini, denari ed armi. Nel 1464, alla morte del padre Ludovico, Amedeo ereditò il ducato di Savoia e con esso la posizione da tenere nella guerra stabilitasi fra Luigi XI e Carlo il Temerario. L’appoggio di Amedeo e di Jolanda andò al re di Francia, il quale, come risposta dell’alleanza, diede il suo sostegno contro Guglielmo VIII di Monferrato e Giangaleazzo Sforza, nemici dei duchi di Savoia.
Seppe amministrare con acume lo Stato, si conquistò la stima e la simpatia dei sudditi anche per il suo amore ai poveri che si concretizzava in aiuti cospicui e generosi. Si racconta che un giorno un ambasciatore gli domando se possedesse cani da caccia, allora il beato Amedeo mostrò una tavola imbandita sul terrazzo che si trovava fuori dal suo palazzo, attorno alla quale sedevano un gran numero poveri e mendicanti, e disse: «Queste sono le mie mute ed i miei cani da caccia. È con l’aiuto di questa povera gente che inseguo la virtù e vado a caccia del regno dei cieli».
Uomo dalla vita morigerata e austera, non lesinava in penitenze e digiuni, eresse chiese e monasteri, donò beni preziosi alla cattedrale di Vercelli e, quando la sua malattia non gli permise più di governare, lasciò la mansione alla moglie, poiché i suoi figli erano ancora troppo giovani. Tuttavia la corte si ribellò alleandosi con i fratelli di Amedeo e venne imprigionato, finché Luigi XI lo liberò, ristabilendo l’ordine.
Stremato dall’epilessia, Amedeo, che visse in pienezza tutte le virtù in grado eroico, consegnò a Jolanda, ai figli e ai suoi ministri il suo testamento spirituale: «Siate retti. Amate i poveri e Dio vi garantirà la pace». Morì a Vercelli il 30 marzo 1472. Le sue spoglie riposano oggi nella cattedrale di Vercelli sopra l’altare della cappella di destra, di fronte a quella di sant’Eusebio, evangelizzatore e patrono del Piemonte.
Il processo di canonizzazione, apertosi poco dopo la sua morte, che fu seguita da un florilegio di miracoli, si chiuse soltanto il 3 marzo 1677 con papa Innocenzo XI, che fissò la festa del Beato il 30 marzo. La sua memoria si conserva a Vercelli, a Pinerolo, a Torino e precisamente nel Duomo della città, nelle chiese della Madonna del Carmine (dove è contitolare), di San Filippo, della Gran Madre, nel santuario di Maria Ausiliatrice e nella sabauda basilica di Superga.
Autore: Cristina Siccardi
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Amedeo nacque il 1° febbraio 1435 nel castello di Thonon-les-Bains, sulle rive del lago di Ginevra in Alta Savoia, da Anna di Lusignano e dal duca Ludovico I di Savoia, figlio del primo duca sabaudo Amedeo VIII, antipapa col nome di Felice V e poi riconciliatosi con la Chiesa. Sin da bambino fu promesso in sposo a Jolanda di Valois, figlia del re Carlo VII di Francia, per cementare l'amicizia tra i due paesi. Amedeo crebbe diventando un bel ragazzo, purtroppo soggetto a crisi epilettiche, che egli accettò quale correzione all’inevitabile adulazione da parte dei cortigiani di suo padre, nonché come un’opportunità per sentirsi a più stretto contatto con Dio. La partecipazione quotidiana all’Eucaristia e la preghiera personale rappresentarono sempre la sua fonte di forza.
Amedeo e Jolanda si sposarono nel 1452 e la coppia si ritirò nella relativamente quieta provincia di Brescia, territorio assegnatogli oltre al governatorato del Piemonte. Ciò suscitò le ire di suo fratello Filippo nei suoi confronti, che quasi si preparò ad attaccare Amedeo, se loro padre non lo avesse arrestato. Nacquero vari figli: Anna, Carlo (Principe di Piemonte), Filiberto I (Duca di Savoia), Bernardo (morto infante), Carlo I (Duca di Savoia), Giacomo Luigi (Conte di Ginevra e di Gex), Maria (contessa di Neuchàtel), Ludovica (venerata come “beata”) e Gian Claudio (morto ancora in fasce). Tutto sommato questo matrimonio combinato si rivelò dunque dei più felici, poiché Jolanda si interessava allo stesso tempo delle pratiche religiose e del governo dello stato, alleviando le fatiche del consorte, che cominciava a manifestare i sintomi dell’epilessia.
La malattia e la sua vita decisamente inclinata al trascendente procurarono ad Amedeo numerose difficoltà, poiché più volte i suoi stessi fratelli gli si ribellarono contro e più volte i nobili sabaudi meditarono di sostituirlo con un erede al trono più energico. Infine però la bontà di Amedeo riuscì pacificamente a prevalere sui suoi nemici. Questo non significa comunque che Amedeo non fosse pronto a combattere per una giusta causa: nel 1459, infatti, durante il concilio di Mantova indetto da papa Pio II, il giovane principe fu solerte e fiero fautore di una crociata volta a liberare Costantinopoli, da poco conquistata dai Turchi, e in difesa del Peloponneso. A tal fine reclutò uomini, armi e denaro.
Nel 1464, alla morte del padre, Amedeo IX assunse il governo del ducato di Savoia. Immediatamente radunò i tre Stati per decidere sulla posizione da tenere nella guerra tra Luigi XI e Carlo il Temerario: l’assemblea, conforme al parere di Amedeo e Jolanda, si pronunziò favorevole ad appoggiare il re di Francia, senza comunque combattere in campo aperto il duca di Borgogna. In cambio di tale atteggiamento, Luigi XI sostenne il cognato contro Guglielmo VIII di Monferrato e Giangaleazzo Sforza. Anche da quest’ultimo Amedeo venne provocato: alla morte del duca Francesco Sforza, il figlio Giangaleazzo tentò di tornare dalla Francia passando in incognito per la Savoia e venne arrestato. Nonostante Amedeo lo avesse fatto subito rilasciare, munendolo anche di una scorta, Giangaleazzo non gli fu riconoscente, ma addirittura giunse a scindere l’alleanza che suo padre aveva stipulato con il duca sabaudo. Era chiaro che Giangaleazzo puntasse solo ad arrivare allo scontro armato, ma Amedeo per riappacificare i loro rapporti gli concesse in sposa sua sorella Bona. Librò inoltre suo fratello Filippo, per il quale organizzò il matrimonio con Margherita di Borgogna, donandogli i territori bresciani e conquistandosi cos’ immancabilmente il suo affetto.
Pacifista in politica estera, Amedeo fu un saggio amministratore del suo stato, benvoluto dai sudditi per la sua liberalità e per l’amore che nutriva per i poveri, concretizzato nell’elargizione di ingenti aiuti. Si narra che, quando un ambasciatore gli domandò se avesse mute di cani e delle razze differenti da quelle del suo padrone, Amedeo mostrò al legato una mensa imbandita sul terrazzo fuori del suo palazzo, alla quale sedevano i poveri e i mendicanti della città: “Queste sono le mie mute ed i miei cani da caccia. E’ con l’aiuto di questa povera gente che inseguo la virtù e vado a caccia del regno dei cieli”. L’ambasciatore gli chiese allora quanti secondo lui fossero impostori, approfittatori ed ipocriti, ma Amedeo replicò: “Non li giudico troppo severamente per non essere giudicato severamente da Dio”.
Amedeo fece edificare numerose chiese e monasteri, ad altri foce varie donazioni, tra cui preziosi paramenti per la cattedrale di Vercelli. Nonostante la sua grande generosità, non ebbe alcun problema economico, anzi grazia ad un’oculata amministrazione riuscì anche a saldare i debiti contratti dai suoi predecessori. Il suo stile di vita era estremamente austero, lontano dal concedersi qualsiasi privilegio nonostante la sua precaria salute e proprio per tale motivo fece piuttosto credere di dover digiunare. Con l’aumento della debolezza e l’aggravarsi del male, nel 1469 Amedeo cedette il governo del ducato alla moglie, poiché il figlio maggiore Carlo, l’unico in età di regnare, era morto da poco. I nobili però si ribellarono e, alleatisi con i fratelli di Amedeo, lo imprigionarono, finché non intervenne il cognato, Luigi XI, a liberarlo e a sconfiggere definitivamente la fronda dei signori.
Gli ultimi anni della vita di Amedeo IX furono molto penosi per il frequente ripetersi delle crisi dell’epilessia, che egli tuttavia sopportò “come una grazia del Signore”. Quando si rese conto di essere ormai prossimo alla morte, affidò i figli all’amata moglie ed alla presenza loro e dei ministri pronunciò le sue ultime raccomandazioni: “Siate retti. Amate i poveri e Dio vi garantirà la pace”, nobilissimo testamento spirituale di un ottimo principe. Spirò a Vercelli il 30 marzo 1472 e le sue spogli furono inumate nell’antica basilica eusebiana, sotto i gradini dell’altare maggiore.
La pietà popolare non tardò a proclamarlo santo, soprattutto dinnanzi ai miracoli verificatisi per sua intercessione. Il processo ufficiale di canonizzazione si protrasse invece molto a lungo, sino al 3 marzo 1677, quando papa Innocenzo XI confermò il culto del Beato Amedeo IX, fissandone la festa al 30 marzo. San Francesco di Sales e San Roberto Bellarmino lo additarono come esempio ai sovrani e furono grandi assertori della sua canonizzazione, provvedimento papale ancora oggi atteso.
Oggi le reliquie del beato riposano nella Cattedrale di Vercelli, più precisamente sopra l’altare della grande cappella di destra, simmetricamente a Sant’Eusebio, patrono del Piemonte. Degna collocazione per un sovrano che meriterebbe egli stesso tale titolo, insieme al protovescovo vercellese. Bisogna invece purtroppo deplorare l’assenza quasi totale del Beato Amedeo di Savoia dal calendario della Regione Pastorale Piemontese, non fosse per la memoria facoltativa riservatagli al 28 novembre dalla Diocesi di Pinerolo: il duca soggiornò infatti a lungo a Pinerolo nel palazzo degli Acaja, ebbe come guida spirituale Bonivardo, prima abate dell’Abbadia Alpina di Santa Maria e poi vescovo di Vercelli, ed il Senato di Pinerolo lo elesse patrono della Valle Chisone.
A Torino, capitale sabauda, il Beato Amedeo è co-titolare della chiesa della Madonna del Carmine, ove è anche custodita una sua reliquia, ed è inoltre venerato in particolare nella cattedrale cittadina, nella chiesa di San Filippo, nella cripta di Maria Ausiliatrice e nelle basiliche collinari della Gran Madre e di Superga. Anche un ponte è dedicato alla sua memoria.
Nella vasta iconografia che lo ritrae, il Beato Amedeo è facilmente riconoscibile per il collare dell’Ordine dinastico della Santissima Annunziata. Ciò lo rende anche facilmente distinguibile dal Beato Umberto III, conte di Savoia, in quanto l’ordine fu fondato solo nel 1362 dal celebre “Conte Verde” Amedeo VI.
PREGHIERA AL BEATO AMEDEO
Con profonda venerazione ed umile fiducia
ci rivolgiamo a te, Beato Amedeo di Savoia,
che hai consacrato l'esistenza alla gloria di Dio,
vivendo secondo giustizia
ed esercitando una carità generosa verso i poveri.
Dalla fede profonda nell'Eucarestia
e dalla contemplazione di Gesù Crocifisso
hai attinto la forza per camminare sulle vie di Dio
e guidare con saggezza il popolo a te affidato:
con il tuo esempio e la tua intercessione
aiutaci a vivere secondo il Vangelo
per rendere testimonianza a Cristo Signore.
Amen.
ORAZIONE
O Dio, che al beato Amedeo hai dato il coraggio
di anteporre il regno dei cieli
al fascino del potere terreno,
per la sua intercessione concedi anche a noi
di vincere ogni forma di egoismo
per aderire a te con tutto il cuore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Autore: Fabio Arduino
+ Hanske, 30 marzo 1231
Giovane pio e timorato di Dio, dopo la morte di suo padre, Dodone fu costretto contro la sua volontà al matrimonio, ma qualche anno più tardi abbracciò la vita religiosa, andandosi a ritirare nell’abbazia premostratense di Mariengaard, mentre sia la moglie sia la madre entravano nel vicino monastero di Bethlehem. Desideroso di servire il Signore in solitudine, chiese all’abate Siardo di potersi rifugiare in qualche luogo appartato, per cui venne inviato a Bakkeveen, dove prese a condurre una vita di rigida disciplina, abbandonandosi a lunghe veglie e ad estenuanti digiuni e mortificando il suo corpo con dolorosi supplizi. La fama di santità, che si era andata via via acquistando, richiamò su di lui l’attenzione di molti infermi, che andavano a visitarlo fiduciosi di essere risanati, verificandosi in molti casi miracolose guarigioni. Sulla fine del 1225 o al principio dell’anno successivo ottenne di trasferirsi nel romitaggio di Haske, ma anche lì venne raggiunto da quanti speravano di ottenere dal Signore, per suo tramite, la grazia di guarire dai loro mali.
Secondo una notizia del contemporaneo Tommaso Cantimpré, Dodone avrebbe lasciato per qualche tempo il suo romitaggio di Haske per recarsi a predicare tra i suoi Frisoni onde esortarli ad abbandonare il barbaro costume dell’odio ad oltranza e della vendetta personale. Senza alcun fondamento, invece, il domenicanoFrancois-Hyacinthe Choquet lasciò scritto nella sua opera “Sancti Belgi ordinis Praedicatorum” che Dodone era appartenuto all’Ordine di S. Domenico.
Il 30 marzo 1231, mentre era assorto in preghiera nel suo eremo di Hanske, Dodone perì tragicamente travolto nel crollo della sua cella, rovinatagli improvvisamente addosso. Subito dopo la morte sembra gli siano comparse le stimmate, che rimangono tuttavia molto dubbie. Sulla sua tomba ad Haske i Premostratensi eressero una loro casa e la chiesa di Nostra Signora di Rosendaal. Oltre che là, Dodone è venerato anche a Bakkeveen; la festa ricorre il 30 marzo.
Autore: Niccolò Del Re Fonte: Enciclopedia dei santi
+ San Mattia di Murano, 31 marzo 1411
Il beato Daniele de Ungrispach, sposo e padre integerrimo, abbandonata legittimamente la famiglia naturale, si aggregò alla monastica, emulando in qualità di domestico le virtù degli eremiti. Tolto ai vivi da mano sicaria presso San Mattia di Murano il 31 marzo 1411, è venerato qual martire ed il suo corpo si conserva incorrotto. Nell’anniversario della morte è commemorato dal Menologio Camaldolese. Mai la Chiesa ha confermato il culto di tale “beato”, ma secondo le indicazioni contenute nell’ultima edizione del Martyrologium Romanum egli gode comunque legittimamente di tale titolo in quanto presente nel calendario della famiglia religiosa.
Ricco commerciante della Carinzia, avendo nei suoi frequenti viaggi a Venezia contratto amicizia coi Camaldolesi di San Mattia di Murano, dei quali spesso era ospite, chiese di essere aggregato al loro monastero in qualità di oblato. Per vent'anni visse con quei religiosi, godendo della più ampia libertà per attendere ai suoi negozi. Una notte, mentre riposava nella sua camera, fu aggredito da alcuni assassini che lo strangolarono (1411). Sepolto, il suo corpo, ritrovato incorrotto, fu trasferito in chiesa ed esposto alla pubblica venerazione. Di questa tomba non resta alcun ricordo. Nel Menologio Camaldolese è ricordato come beato il 20 marzo.
Autore: Giuseppe Cacciamani Fonte: Enciclopedia dei Santi